Leningrado. Inverno 1971, dopo le fiammate di libertà degli anni Sessanta l’Unione Sovietica e tutto il blocco del Patto di Varsavia sono ricaduti nell’immobilismo culturale; è il periodo della cosiddetta “stagnazione”, dove il pragmatismo brezneviano ha messo la museruola ai non-allineati, dai praghesi troppo libertari agli intellettuali interni, non più però mandati nei lager come un tempo, bensì perseguitati in maniera più sottile, con processi prefabbricati e divieto di pubblicazione delle loro opere. È in questo tempo sospeso che si muovono futuri grandi scrittori, come Sergej Dovlatov e Iosif Brodskij.
Aleksej German “il giovane”. Ma da quando suo padre è morto forse non c’è neanche più bisogno di aggiungere quell’aggettivo, quell’appendice determinante e limitante, tanto più che ormai il ragazzo è diventato grande e lo conferma con questo suo quinto lungometraggio, dedicato allo scrittore leningradese di nascita, new-yorkese di adozione (oltre che armeno-ebreo per autodefinizione) Sergej Dovlatov. Il suo precedente Under Electric Clouds, pur essendo un’opera sontuosa e magnetica, ci aveva fatto temere una certa involuzione autoreferenziale, un imprigionamento in certi cliché stilistici che, se rendevano ormai riconoscibile al primo sguardo una sua inquadratura, trasmettevano tuttavia una bellezza senz’anima: estetismo vibrante, decentramento e multipolarità narrative, affastellamento verticale di motivi, ma una certa aridità estetizzante ad incartare il tutto. Forse questa volta l’aver utilizzato un direttore della fotografia straniero (il polacco Lukasz Zal) e l’aver abbandonato i suoi attori feticcio (primo su tutti Merab Ninidze) lo hanno preservato da un ulteriore passo nelle spire dell’auto-ripetizione compiaciuta.
Questo suo Dovlatov, che torna a casa dal Festival di Berlino con un premio tecnico (l’Orso d’argento per costumi e scenografia a Elena Okopnaja, moglie del regista) e la vendita dei diritti per la piattaforma Netflix (per ora Italia e Federazione Russa escluse…) è un oggetto non del tutto identificato, e ciò è decisamente un bene. In Italia dovrebbe uscire a breve, e ciò ci permetterà di rivederlo con maggiore attenzione, mentre in Russia avrà un mercato limitato ai primi giorni di marzo, segnale, forse, di una non totale spendibilità spettatoriale, nonostante sia il film più accessibile del quarantaduenne regista leningradese, il primo che si potrebbe inscatolare sotto l’etichetta di bio-pic. Ma rimane questo un film biografico che si evidenzia per la sua felice atipicità, in quanto narra una settimana della vita di uno scrittore (simbolicamente quella precedente all’anniversario della Rivoluzione del 7 novembre) quando questi non aveva ancora pubblicato una riga, ed evita soprattutto di adagiarsi sugli stereotipi orizzontali e deittici del genere.
Alla fine del film uno spettatore che non lo conoscesse continuerebbe a sapere ben poco di concreto dello scrittore Sergej Donatovič Dovlatov (1941-1990), che, diremo di più, non è quasi neanche il vero protagonista, ma un fenomenale pretesto addensatore per una riflessione a larghissimo raggio su alcuni temi fondamentali della cultura russa: l’attualità dei suoi classici letterari, la scissione quasi schizofrenica fra aspirazione a rimanere in patria e necessità dell’emigrazione, e ancora il ruolo fondamentale di valvola di sfogo e surrogato antropologico svolto dalla cultura parallela, sotterranea o “underground”, che nei momenti di mancanza di libertà con le sue magmatiche e fluide attività non ufficiali ha permesso di proseguire l’esercizio mentale e la diffusione di valori culturali nei circoli degli artisti non omologati.
La Leningrado lattiginosa del novembre ’71 in cui si muovono Brodskij (che emigrerà poco dopo, mentre Dovlatov solo 7 anni più tardi) e i poeti, filosofi, artisti “non-pubblicati” è un’immagine congelata di vettori di forza e dinamiche umane contrapposte: l’URSS non è più un regime dittatoriale in cui la mattina all’alba si può sparire per decenni accompagnati dalla polizia politica nei campi del GULag, ma è un Limbo extratemporale di forze rapprese, un’enorme bolla accentratrice, una zavorra frenante che limita gli slanci creativi centrifughi, una lenta e farraginosa catena di montaggio in cui se non si assumono sagome e dimensioni “conformiste”, non si può occupare una posizione funzionale. La poesia di Brodskij è definita incomprensibile, a Dovlatov chiedono di scrivere reportage propagandistici, gli artisti non figurativi sono costretti a stare lontani dalle sale espositive, mentre Evtushenko è citato come elemento di contatto esemplare fra i due mondi, ufficiale e indipendente: per chi non si adegua, la tentazione costante che rode l’animo è la via dell’emigrazione, a volte permessa o vivamente “suggerita” dal regime.
Ed è proprio la tentazione diabolica, infedele, rinnegatrice di lasciare la propria terra, i propri appartamenti intessuti di poesia e lunghe discussioni, i corridoi e le cucine risonanti di chitarre e cantautori-“bardi” (non a caso qui risuona a cornice “Beri shinel’…” di Bulat Okudzhava), la tentazione di abbandonare quelle strade dove, a mo’ di farsa carnevalesca, si muovono in una ridicola attualizzazione propagandistica i fantocci di Tolstoj, Gogol’, Dostoevskij e Natasha Rostova, è proprio quel desiderio di non dover più vedere artatamente bloccati con ridicoli pretesti i propri racconti e le raccolte di versi a costituire una delle forze d’attrazione principali che fanno muovere tutto il film attorno al pivot, al rocchetto di svolgimento della figura gioviale di Sergej. È questa una inarrestabile pressione motoria, una specie di salvifica idea fissa di poter dar voce pubblica alla propria Parola interiore, addensata dal mantra “non ci pubblicano” che risuona (in maniera invero forse un po’ troppo programmatica) dal primo all’ultimo minuto. È nel vortice creato nel punto d’incontro di queste forze propulsive, l’amore tradito per la patria e la brama editoriale, che nasce la forza motrice incessante di questo film, in cui i personaggi si muovono quasi a passo felpato, con una magica souplesse artificiale e sovranamente anti-realistica che viene convogliata sulle spalle ampie e sul volto dell’attore serbo Milan Maric, che si propone in una riuscitissima incarnazione a-temporale dello scrittore. Forte di una somiglianza fisica non trascurabile, il suo personaggio-Dovlatov diventa una prefigurazione concentrata, quasi una filtrata premonizione dello scrittore-Dovlatov che sarà, citandone alcuni degli aforismi caratterizzanti, anticipandone lo spirito tragicomico e l’umorismo “pseudo-ebraico” che ne caratterizzerà i futuri racconti, addensando in un’atmosfera di umori e sghembi suggerimenti le parole scritte e stampate che verranno solo dopo qualche anno (si approfitti assolutamente del film per leggere le traduzioni e i saggi di Laura Salmon, sua mediatrice e sacerdotessa in lingua italiana).
È come se German fosse riuscito nel piccolo miracolo di raccontare per accenni e tratti somatici dell’anima uno dei più letti e validi autori della seconda metà del Novecento russo senza costringerci a seguirne pedissequamente vicende e peripezie migratorie: in questo senso il film ha la stessa nonchalance e il sornione menefreghismo di molti racconti dello stesso scrittore, nel suo non affrontare di petto un “tema”, scegliendo invece di ricamarci attorno frecciate, schizzi di pennello umoristico (non avevo mai riso così tanto in un film di German…), dettagli superflui, osservazioni apparentemente peregrine. Che poi tanto peregrine non sono, e costituiscono invece grumi estetici da sviluppare nella propria immaginazione e capacità ricettiva, piccoli segnali da un mondo extra-temporale in cui convivono Franz Kafka (così ironicamente Sergej si presenta per far colpo su una ragazza) e i classici russi dell’Ottocento, Solzhenicyn (evocato ma non visto, all’interno dell’importante sottotesto concentrazionario) e i grandi poeti del primo Novecento, Blok con il suo “eretico” accostamento di Cristo e la Rivoluzione (si veda l’ironico riferimento a I dodici), ma primo fra tutti quel Mandel’shtam che diventa un’evocazione insistita per antonomasia della voce lirica schiacciata dall’arbitrio del potere.
Anche le contingenze criminali, lo sporcarsi le mani degli scrittori impubblicabili e impubblicati con il piccolo contrabbando, oltre a essere notazione storica e marchio d’epoca che conferma l’ottimo lavoro di ricostruzione fatto dalla troupe, è il portato di un’ulteriore mancanza: la necessità di trasformare affetti e aspirazioni in qualcosa di tangibile, oltre alla sacra ossessione di veder concretate le proprie parole su carta, si condensa nel perno strutturale della bambola che Dovlatov vuole a tutti i costi regalare alla figlia, ma che fa parte dei “beni deficitari” del periodo, e che diventa simbolo assente di un sistema che non permette di dare sostanza fisica al desiderio, di realizzare il potenziale inespresso. German usa così ricorrenti leitmotiv oggettuali, verbali, nominali (per di più in assenza dei referenti evocati), che si inseguono e intrecciano attorno alle figure principali, finendo col creare un denso bozzolo di riferimenti condivisi che avvolge e unifica questo mondo un po’ filologicamente ricostruito, un po’ proiettato con libertà immaginifica. L’assenza, i vuoti, le lacune del mondo reale si riversano così naturalmente nelle spinte oniriche paradossali del Dovlatov dormiente. Si vedano i due sogni: in uno egli conversa amabilmente con Brezhnev, in una antifrasi rappresentativa che lo immagina amico dello scrittore e suo sostenitore; nell’altro invece egli rammenta quasi con serenità pacificata gli anni passati come guardia in un campo di prigionia, dove per lo meno è accolto come parte funzionale e funzionante di un sistema.
In generale Dovlatov segna un momento di svolta importante per il cinema di Aleksej Alekseevich, in quanto è la prima volta che egli punta in modo così deciso su una linearità narrativa quasi tradizionale, in cui gli “a parte” e i momentanei detour non distraggono dal focus centrale, non lasciano mai fuggire fuori quadro il protagonista. D’altro canto però questa evoluzione potrebbe anche segnare un certo inaridimento, un rientro nei ranghi di certa compattezza diegetica che, quand’anche rendesse più fruibile il suo cinema, potrebbe rischiare di attutirne l’impatto estetico primario. Le sue stesse fluide carrellate in interni, gli sguardi in macchina rivelatori, le scene di massa negli appartamenti ereditate dal padre, il sopraffino gioco di messa a fuoco “pulsante”, la pasta lieve ma compatta dei suoi cromatismi freddi (non gelidi però), sono qui elementi espressivi tutti ben presenti, ma risultano (a modesto parere di chi scrive) meglio soggiogati al servizio di un’idea espressiva meno anarchica. Nelle sue precedenti prove questi procedimenti erano più ribelli e marcati, a volte sublimemente autonomi e irriducibili, ma a tratti anche leggermente afasici nella loro relativa indipendenza dal discorso filmico.
German ha dunque operato sostanzialmente in due direzioni: ha concentrato artisticamente la materia biografica del Dovlatov reale in un mondo di sogni e aspirazioni in cui non ha concesso molto allo spettatore digiuno dell’opera dello scrittore (per fortuna). D’altro canto è come venuto a patti con meccanismi di condensazione narrativa che fanno di questo il suo film più ri-assumibile, centrato e compatto. In conclusione, questo rimarrà forse un esperimento/omaggio comprensibile solo dai russi, anzi da quanti abbiano ben presente lo spirito dovlatoviano e ne sentano a pelle risuonare gli echi; dirà probabilmente molto meno al pubblico “occidentale” che potrà coglierne più che altro solo il discorso universale sulla libertà espressiva e sull’oppressione uniformante del sistema sovietico. Ma se, oltre a questo, spingerà anche qualcuno a prendere in mano i suoi racconti, allora la sua lunga attesa per essere pubblicato non sarà stata vana.