Negli ultimi cinque o sei anni la sponda giapponese della settima arte ha visto nascere e affermarsi un apparentemente innocuo studente di cinema di nome Ryusuke Hamaguchi con una prepotenza che in tempi recenti avremmo potuto attribuire solo a Sion Sono. Un accostamento che sulla carta sembra non avere nemmeno senso, tanto sono diversi i due per stile, pensiero, formazione, vissuto. Eppure in qualche misura sono speculari, nel senso che il modo in cui si sono imposti sulla scena internazionale inizia dallo sguardo unico che hanno riservato alla tradizione nipponica, in virtù del quale hanno posto le basi teoriche della propria autorialità: così due prospettive contrapposte (e quindi collegate, seppur lontane) hanno generato i due registi giapponesi più rappresentativi degli anni 2000.
In un’intervista del 2009 per 3:AM, Sion Sono esprime la necessità di allontanarsi dalla pesante eredità di Yasujiro Ozu per resuscitare una tradizione ormai appiattita su un sistema di topoi consolidati. La deferenza dinanzi al “Dio del cinema giapponese” è un ostacolo che dev’essere superato e lasciato alle spalle, va compiuto una sorta di parricidio attraverso un’opposizione ostinata e radicale; da qui l’idea di appellarsi come l’Anticristo del cinema nella terra del Sol Levante. Hamaguchi non ha mai fatto trapelare dichiarazioni del genere, ma una delle componenti imprescindibili dei suoi film è la ripresa della tradizione nazionale, con annesse graduali correzioni. Ma la sua tradizione è quella di Naruse, non di Ozu, cioè quella coscienziale, non “pedagogica”. Entrambi i registi quindi fanno parte di una generazione non ben definita (successiva alla trinità composta da Kitano, Miike, Tsukamoto) nonostante quasi vent’anni di differenza anagrafica; entrambi hanno ritenuto opportuno ibridarsi con la tradizione europea degli anni ’60 e ’70 (quella della rottura per eccellenza), nelle vesti di Fassbinder e di Rohmer rispettivamente; ed entrambi fondano la propria poetica su una rottura con il passato – massimalista nel caso di Sono, tagliente in quello di Hamaguchi. Nel momento in cui il primo sembra vivere una fase di transizione, il secondo emerge con quello che sinora appare il suo film più maturo, incisivo e articolato.
In un 2021 fruttuoso e fortunato, Hamaguchi ha calcato prima il tappetto rosso della Berlinale e poi quello della Croisette, in pieno accordo con questo biforcuto vettore che parte dall’Arcipelago in Asia arriva all’Europa continentale: non abbiamo intenzione di occuparci del pur delizioso film a episodi Wheel of fortune and fantasy presentato online in Germania, ma orientiamo la nostra attenzione a Drive my car, fresco di prix du scenario a Cannes e con una certa sorpresa proiettato, pur un po’ a macchia di leopardo, anche in Italia.
Ribadendo ancora una volta che, quanto a valore, adattamento cinematografico e testo di partenza sono, non sempre ma spesso, inversamente proporzionali, il soggetto è liberamente tratto da un racconto di Murakami contenuto nella raccolta Uomini senza donne edita de Einaudi. Il canovaccio è minimale: l’attore e regista teatrale Yusuke Kafuku, protagonista dell’opera, è vedovo da due anni, ancora non ha superato la perdita a causa dei rimpianti (non avendo mai affrontato la precoce scomparsa della figlia piccola e i reiterati tradimenti di lei), e la sua infinità di dubbi, idee, ricordi ed emozioni sconnesse troverà il modo di venire a galla mentre lavora a una rappresentazione multilingue di Zio Vanja di Čechov in quel di Hiroshima, grazie alla particolare “convivenza” con la giovane autista Misaki.
In realtà nel ridurre Drive my car a verboso dramma sentimentale si fa torto a un’opera decisamente ambiziosa che destruttura già dall’inizio la sua narrazione per configurarsi come una riflessione linguistica; e non nell’ormai banale senso che non ci deve importare cosa succede perché l’evento della storia è orientato in senso funzionalistico all’esegesi di una componente del linguaggio cinematografico. Hamaguchi, anzi, struttura un film su due fasce trasparenti e sovrapponibili: il primo riguarda la messa in scena di una complicata rete di tensione interpersonale tra un gruppo di persone (il cast teatrale), arricchito da una ramificazione metacinematografica; il secondo concerne lo smembramento della dimensione discorsiva (a sua volta verbale e fisico) attraverso la disamina del significato in generale. Questa duplicità fa di Drive my car, semplicemente, un film sulla comunicazione intesa nella sua massima vastità concettuale.
Non si tratta di territori inesplorati dal giovane regista, già in Intimacies (2012) la relazione tra allestimento teatrale e spettacolo vero e proprio – con i consueti intrecci tra realtà e finzione – era il punto focale. Qui gli strati narrativi si moltiplicano nonostante l’apparente semplicità del registro. Le tre ore di durata si susseguono a blocchi, a cominciare dal succoso incipit (che dura una quarantina di minuti), primo di cinque o sei paragrafi – o forse sarebbe meglio dire “atti” – per lo più separati da dissolvenze classiche, e strutturati per iniziare, svolgersi e concludersi in un ambiente unico, statico, con il minor numero possibile di movimenti di macchina. Dopotutto stiamo parlando di persone che non riescono ad andare avanti con la loro vita e si raccontano storie bloccate o monche. La scelta più coerente prevede dunque rinunciare all’abuso di piani-sequenza a camera fissa, evitando di appesantire i tempi scenici, e optare dunque per ribadire l’idea di fissità attraverso un montaggio ritmico e ripetitivo.
Lo spettacolo in questione è Zio Vanja di Čechov, che funge da veicolo per l’elaborazione del lutto. Elaborazione e veicoli formano una coppia inscalfibile per tutto il film, in effetti, giacché i punti di svolta arrivano nei rari momenti di dinamismo, ovvero nell’adorata utilitaria di Yusuke (parte del suo rituale di studio del testo), guidata da Misaki. Sono due le lunghe chiacchierate che fungono da cardini dell’opera: la prima, quella tra il protagonista e una Misaki più aperta; la seconda, alla quale si aggiunge ai due la voce dell’ultimo amante della moglie Oto, e in cui la storia che lei stava scrivendo prima dell’improvviso aneurisma fa dei passi avanti, e così anche Yusuke e Misaki con le loro vite.
E lo stesso dramma teatrale viene decostruito a livello linguistico. I personaggi parlano lingue differenti (tutte quella asiatiche, incluse suhwa e tagalog), e non si capiscono fra loro, cosicché il senso della rappresentazione si focalizzi sulle modalità di rappresentazione, e non invece sulla catena di senso parola-azione-reazione-sensazione così come vengono recepite e ricomposte dallo spettatore; spettatore che assiste sia a Zio Vanja, sia a Drive my car nella sua doppia natura di storia e oggetto filmico. La stessa decostruzione si ripercuote sull’intero film, tanto che le parole perdono di significato. A una certa, man mano che tale decostruzione prosegue, anche i significati stessi vengono svuotati. Le catene di senso si frantumano del tutto, e ogni elemento narrativo, esattamente come le linee di dialogo dell’adattamento di Zio Vanja, diventa un ponte per una riflessione comunicativa, cioè i tentativi di comunicare diventano considerazioni sulla comunicazione medesima.
Il senso torna quando a essere raccontate sono altre storie: le storie parlano, gli uomini e le donne no. Hamaguchi ce lo ripete addirittura riservando un “atto” intero all’attrice muta, e il ribaltamento che viene disegnato è ancora una vota duplice. Ovverosia si tratta uno dei momenti in cui i personaggi parlano di più e in maniera più concitata (con tanto di traduzione simultanea a stratificare maggiormente), eppure non si dicono niente. Le battute quando i personaggi parlano di se stessi e degli altri diventano progressivamente sempre più stupide e naïf, a limiti del ridicolo. L’idea è quella di enfatizzare l’elemento mélo per annichilire l’io dei personaggi stessi, a loro volta sempre attori o autori, abituati dagli eventi delle loro vite, per un motivo o per l’altro, a non essere niente se non nell’attimo in cui si fanno strumento di un racconto – Takatsuki ne è l’esempio principe, nonché il doppio dell’autore teatrale.
Drive my car è una storia che parla di storie, come tutti i film metacinematografici, del resto, altrimenti non si chiamerebbero così. È una storia che concepisce e partorisce storie, dal momento che la sfera della sessualità viene privata di ogni connotazione psicologica o sociale e riempita di concetti narratologici. Si veda la scena iniziale, in cui viene declinato l’intero rapporto tra Yusuke e Oto: le storie e il loro racconto costituiscono di fatto una compensazione della figlia scomparsa; ma anche l’intero lascito di lei è legato alle registrazioni didattiche che lascia al marito, il suo ricordo non è legato a immagini o sensazioni, momenti o fatti, ma unicamente alla sua capacità di narrare. Ancora una volta si sfilaccia il rapporto parola-senso, a importare è il suono, la voce che rimane al di là della morte e delle questioni irrisolte trai due. Esattamente come il testo del dramma teatrale viene letto fino a quando le parole si impastano nelle bocche che le provano e le recitano, le parole di Oto smettono di avere un significato sia a livello linguistico – diventano battute senza senso se non completate -, sia a livello metatestuale – non significano nulla per Yusuke. Pura sonorità senza significanza.
Hamaguchi dunque decide di affondare una struttura basilare della realizzazione di un film, fagocitando l’immagine visiva o sonora con la mdp. Questa fa sfilare fuori fuoco, in un’astratta profondità di campo, i principali elementi sintattici della sua architettura per disporre in loro vece delle relazioni fra questi. In sostanza, il buon Ryusuke ha deciso che bisognava capovolgere la relazione fondamentale del significato: i vari significati sono tali perché inseriti in una reticolata relazione di senso con altri significati, e vengono abbandonati assieme al senso della storia; ad essere sotto indagine, formalizzata mediante un’esplorazione della comunicazione, sono i piani espressivi che rinviano ai contenuti, intesi – sempre duplicemente (sia mai che ci sia qualcosa di semplice) – come quel reticolato relazionale che è a sua volta un grumo pulsante di sensazioni e sentimenti – successivamente stravolti e in qualche misura mutilati dalla gabbia linguistica.
Chissà come si dice “il significato è un sasso in bocca al significante” in giapponese.
Insomma, Drive my car non impiega molto a farsi concepire come un testo, un esoscheletro narrativo ridotto ai minimi termini, prima che un film vero e proprio. Ma è entrambi, solo che in una forma arriva prima, e in un’altra dopo, beneficiando comunque dello sfasamento. E come la rappresentazione di Zio Vanja si fa tramite per l’espressione dei dubbi e delle domande interiori dei personaggi, Drive my car diventa, nel suo essere prodotto compiuto, il veicolo per l’estrinsecazione di questioni sulla comunicazione; comunicazione che, appunto, riguarda tanto il singolo mattone narrativo in qualità di atomo di un racconto qualsiasi, sia quella tra esseri umani che trovano inattuabile la reciproca comprensione, confinati in se stessi nonostante tutti i tentativi (fiducia, abbandono, imposizione violenta, sforza empatico, etc.) di colmare le distanze tra sé e il mondo. Ma non è solipsismo facilone, c’è un tassello mancante che resta inevaso nella vita di ciascun personaggio principale, e Hamaguchi lo simboleggia introducendo un lutto nel passato di ognuno: la perdita di un affetto è il chip per partecipare all’articolato poker della sceneggiatura, permettendo così un disegno finale di potenza emotiva decisamente fuori scala per un film con tale complessità concettuale.
E la natura duplice di un film di questo calibro emerge sia nella ricostruzione che abbiamo proposto, sia nella delicatezza con cui viene esplorata la percezione di un abbandono che prova ogni persona sullo schermo. L’affresco di Hamaguchi ha quell’eleganza e quel passo leggero che riesce a convogliare tutto questo – e molto di più, non pretendiamo certo di esaurirlo – in un amalgama di rappresentazioni rincorrentesi dotato della capacità di penetrare ogni sua stratificazione teoretica e arrivare allo spettatore quasi senza difficoltà, tanta è l’intensità emotiva che scaturisce da Drive my car. E nell’ambizioso finale che scopre tutte le carte, tra un viaggio e l’altro attraverso l’arcipelago in una dimensione di ritrovato dinamismo, la sequenza conclusiva che richiama l’attualità – un’ecfrasi di dolcezza inaspettata dopo la catarsi -, spegne il film come un bacio del genitore suggella la fine della giornata del bimbo.
Non c’è dubbio che Ryusuke Hamaguchi abbia partorito il suo lavoro più seminale e la prima pietra miliare di una nuova ondata del mai trascurabile cinema nipponico, allo stesso modo in cui non pare certo controverso che, pur nella sua breve carriera, il nostro abbia già un lascito di una certa ampiezza ,e al contempo una scena tutta da prendersi nel prossimo futuro. E a tutto ciò ci sarebbe ancora da aggiungere la segnalazione di alcune chiavi di lettura complementari, come il tema ricorrente della vite precedenti, da assumere come portato storico e personale, emulazione di un subconscio in grado di arricchisce e limitare contemporaneamente; o ancora come la simbologia legata ai luoghi del Giappone, presente nella forma di uno schema di metafore territoriali – non è da dimenticare, infatti, la trilogia di documentari su Fukushima realizzata dal nostro assieme a Ko Sakai, il parallelo con la disgrazia di Hiroshima, e il rimando simbolico attribuito ad alcune zone come l’estero-non-estero Vladivostok o il lontano e innevato Hokkaido, legati rispettivamente a motivi di spaesamento e morte/rinascita.
Sarà forse per un’altra volta, dal momento che è praticamente impossibile decifrare l’integralità di Drive my car e riordinarla attraverso un testo scritto. Hamaguchi merita attenzione a prescindere da tutto, proprio per l’abilità con cui fonde un’orda inaccertabile di elementi in tre ore tanto dense sul piano della stesura quanto lievi su quello dell’intensità. Musica da camera fatta cinema. 180 minuti saranno sì sopra la media ma in numerose altre occasioni ormai su NSC abbiamo improvvisato panegirici su opere fluviali ben più voluminose, eppure in questo caso in particolare assistiamo a un continuo traboccare di suggestioni e riflessioni, spesso pluri-sfaccettate a loro volta, e sempre da mettere a sistema con altre analogie che affiorano di volta in volta; e così a oltranza, come quando si mischiano i colori ottenendo gradazioni sempre diverse. Alla fine a tre ore di visione ne corrisponderebbero forse nove di spiegazione a riguardo, impresa nella quale non ci cimentiamo perché, ammesso e non concesso solamente l’esserne capaci, non ce la sentiremo nemmeno di ascoltarci da soli, in fondo.
Drive my car è un film titanico proprio per tali ragioni, un film vasto contenente una moltitudine di tracce che per quanto ci si possa sforzare di raccogliere, lascerà fisiologicamente sempre qualcosa di inviolato a una seconda visione. Si tratta di un’opera che rimane, che mette radici e dà frutti con il tempo perché è quasi inesauribile a livello di spunti, una di quelle opere nel ristrettissimo circolo di quelle definibili “totali”.
«…il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete»
Titolo originale: Doraibu mai ka
Genere/i: drammatico, sperimentale
Paese, anno, durata: Giappone, 2021, 179′
Regia: Ryusuke Hamaguchi
Sceneggiatura: Ryusuke Hamaguchi
Fotografia: Hidetoshi Shinomiya
Montaggio: Azusa Yamazaki
Musiche: Eiko Ishibashi
Cast: Jin Dae-young, Reika Kirishima, Toko Miura, Hidetoshi Nishijima, Masaki Okada, Sonia Yuan
Produzione: C&I Entertainment, Culture Entertainment, Bitters End
Distribuzione: Bitters End, CG Entertainment