Chiunque abbia letto titolo, regista e sinossi del presente film ora si sta facendo una e una sola domanda, e questa non pertiene certo la struttura del film o la figura su cui esso si incentra, ma concerne strettamente la natura del mistero che si nasconde sotto i riccioli sbarazzini dell’autore serbo. Nel dettaglio: ma come si fa a passare dallo scrivere canzoni in onore di Putin a voler intervistare (per poi farci un film sopra) José Mujica?

Non lo sapremo mai, tanto vale frenare gli entusiasmi, sarebbe stato un doc di lancinante potenza altrimenti. Invece El pepe, una vida suprema è un’opera basilare, semplice, senza chissà quali pretese, che si limita invece a dimostrare la fascinazione nutrita da Kusturica nei confronti della innegabilmente carismatica figura di el Pepe. L’impostazione registica è comunque molto forte, articolandosi su più piani: il primo è quello che riguarda l’ex presidente uruguagio, e si divide in tre brevi analisi di altrettanti momenti chiave della vita di quest’ultimo, ovvero l’avvicinamento all’ideologia e al conseguente attivismo, la prigionia (trattata anche nel notevole La noche de 12 años, sempre qui a Venezia), e l’eredità che si pone l’obiettivo di lasciare. Accanto a questa impalcatura Kusturica sceglie di trattare, intrecciandola, il quinquennio della presidenza di Mujica e trarne tutta una serei di spunti sparsi per raccontarne la figura. Forse con un pizzico d’arroganza l’autore balcanico prosegue su questa strada con un confronto per similitudini e analogie con la propria persona, mettendo in luce la comunione tra il suo spirito e quello del sudamericano – Emir dixit.

O almeno così vorrebbe fare, perché questo fattore in vari momenti si rivela più che altro una forzatura, specie nel momento in cui lo screentime di una personalità come quella di el Pepe in un film così breve (75′ circa) viene ridotta a scapito di tutto il mare di riflessioni filosofiche e politiche, principalmente, ma anche intorno all’arte e all’amore a cui dava accesso; è difficile non rimanere delusi al comparire dei titoli di coda, ci si aspettava un po’ di più dall’opportunità di trattare Mujica da parte di un signor regista come Kusturica. E, si badi, di più in generale, non solo del presidentissimo, poiché, al netto della presunzione del regista, la conversazione prende una piega estremamente interessante e complessa che è un peccato lasciare così, senza uno straccio di conclusione.

I temi delle discussione si biforcano in fretta: da un lato l’amore per la vita, dall’altro il concetto di utopia. Il primo scaglione è dedicato al vitalismo nelle teorie socialiste secondo Mujica, che alterna come solo un grande uomo di cultura sa fare riflessioni più basilari di natura prassistica a ragionamenti che calgono sistemi più ampi, d’ambito puramente filosofico. La sua naturalezza nel farlo è impressionante, tanto per lo spettatore quanto per il regista che in più di un’occasione di ritrova piacevolmente disorientato da un incontro che non riesce a controllare del tutto, ma ben presto dominato dal pensiero sistemico del leader Tupamaro – evidente i particolar modo nel breve lasso di tempo dedicato all’ecologismo, affrontato come un tema culturale da inserire in un contesto socio-filosofico ben preciso, senza sfiorare nemmeno per errore lo sterile solidarismo buonsensaio che affligge il tema da anni ormai.

Il secondo blocco dell’intervista si pone l’obiettivo di pensare il concetto di utopia, valutandolo non tanto nella sua accezione letterale di non-luogo/buon-luogo, quanto nella sfumatura che vuole abbattere il nichilismo imperante, per permettere una riflessione ad ampio raggio, apertamente progettuale, che si estende presto – data la complessità del discorso e le innumerevoli digressioni a cui dà adito – anche a scambi dialettici sull’ideologia e sulla post-ideologia, sul senso dell’ideale (che è una cosa diversa) nella contemporaneità e infine su una differente concezione del sogno come “raggiungimento dei propri obiettivi” applicato al caso dell’intervistato.

Un documentario che trabocca valutazioni interessanti, denso, forse anche troppo, che avrebbe meritato più minutaggio probabilmente, ma che fa a ogni modo la sua gran bella figura, nella sua ricchezza non tanto cinematografica, ma culturale. Una visione tutto ciò la merita senza discussioni, d’altro canto va ribadito però che, al pari di Carmine Street guitars (tanto per fare un’esempio qui vicino), è dato tutto dall’oggetto delle riprese, non tanto dal cinema in senso stretto, al netto dei filmati di repertorio, delle interviste degli amici e tutto quello che segue.

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