A tre anni di distanza dal non proprio indimenticabile Jackie, Pablo Larraín ritorna a calcare nel 2019 il tappeto della kermesse veneziana e lo fa portando un lavoro anomalo, sorprendente per come prende le distanze da tutte le opere che l’hanno preceduto. È un svolta non da poco per Larraín, che dopo anni rinuncia a quello che lui stesso definì “cinema-autopsia” per sperimentare con il presente, e non più con il passato.
E quindi siamo nel Cile del 2019, l’unico elemento di continuità tra Ema e i film precedenti è la presenza di Gael García Bernal, che assieme all’esordiente Mariana di Girolamo forma una coppia disfunzionale che fa i conti con le conseguenze di una decisione controversa. Gastòn ed Ema hanno riportato indietro all’orfanotrofio il piccolo Polo, figlio adottivo problematico di fatto cacciato dopo aver ferito gravemente la zia. Il rapporto trai due si incrina, ognuno scarica la colpa sull’altro e la convivenza forzata (lui è il coreografo della compagnia nella quale lei balla) si fa insostenibile, al punto che Ema abbandona la casa comune e inizia un viaggio per le strade di Valparaíso che la porti a riconoscersi e liberarsi, da tutto e tutti, a essere pura.
Arte, desiderio, amore sono i tre punti nevralgici lungo cui Ema si snoda, l’unico comune denominatore tra queste sfere semantiche è, nell’opinione della protagonista, la ricerca di una libertà autentica. E ciò comporta rischi e contraddizioni, al stessa Ema si perde in se stessa e negli altri, o tradisce se stessa e gli altri, eppure per Larraín rimane sempre al centro dell’opera con la mdp che guarda a lei come a un personaggio esclusivamente positivo.
Ema si esprime attraverso il reggaeton, una tipologia di musica che Gastòn detesta perché evasiva, non ha che fare con l’arte ma permette invece di isolarsi, dal canto suo Ema e le amiche nonché compagne di ballo di strada ne difendono la spontaneità, la forza vitale giovanile. Gastòn infatti, come ribadito più volte, è più anziano di una dozzina d’anni, fatto che cambia la percezione che gli altri personaggi hanno di lui quando questi ne vengono a conoscenza. Il conflitto generazionale è solo un‘anticamera però, Ema entra in conflitto con tutto: uomini, donne, figli, amiche, passanti, colleghi. La sua è una sorta di odissea concentrata in pochi giorni che la vede desiderosa di abbattere qualunque frontiera, di avere tutto – essere libera, appunto.
Ema è una sorta di archetipo di qualunque personaggio presente nel film, e proprio per questo si scontra con ogni categoria, lei è madre, moglie, amante (di entrambe le parti di una coppia, contemporaneamente) ma anche sorella, capo del gruppo di ballo formalmente riconosciuta etc. Occupa ogni posizione relazionale possibile, è parte integrante di qualunque tipo di legame. Lo fa perché a suo modo di vedere lei deve raggiungere una totalità ideale, non avere limiti, ma è proprio questo, pur con conseguenze liete, che non le fa trovare pace, e lo dimostra la scena finale quando nonostante l’equilibrio ritrovato non sa rinunciare al dare fuoco alle cose per strada.
Perché Ema è anche un’incendiaria (ma non una piromane, o così lei si inquadra), distrugge i simboli di potere, si gratifica abbattendo materialmente semafori o cartelli. E la stessa voluttà perversa vale per le persone, le seduce e le fagocita, distruggendole internamente. Da un lato ne sembra consapevole, la sua appare solo come malizia, ma sul versante opposto lei è entusiasta di ogni nuova esperienza ed è convinta di donare amore alle “prede”, è una manipolatrice nata ma è mossa da un intenso desiderio di ricevere e donare amore.
Larraín prova ad abbracciarne senza compromessi tutte le contraddizioni, ma ha creato un personaggio troppo dissociato, poiché Ema oltre a tutto questo è anche un mezzo per parlare della gioventù cilena e della generazione del XXI secolo che dovrà affrontare un altro mondo rispetto a questo, c’è assoluta incompatibilità e incomunicabilità con la generazione precedente. In fondo si riduce tutto a questo: Ema è un prototipo di questa gioventù, li ha tutti in sé e il suo parto sembra il risultato di una relazione con Gastòn, Raquel, Aníbal, le amiche. Nel finale si va oltre il piano di realtà per accedere a una dimensione simbolistica con la luce che cambia e diventa naturale, per la prima volta dopo che per un’ora e mezza il posto di direttore della fotografia sembrava essere stato occupato con la forza da Gaspar Noé dopo un trip.
Larraín cerca di ricostruire sullo schermo la potenza, la vitalità espressiva che scorge nella gioventù che balla per strada con i loro codici e la loro fedeltà a un culto laico, e percorre la via delle luci al neon, di un’invadente colonna sonora ovviamente reggaeton e di una regia lisergica che alterna piani-sequenza con la camera a spalla che definire manieristici è poco, immobilismi prolungati, sequenze suddivise dal montaggio in quadri simmetrici. In una parola: sfibrante (in entrambi i sensi). Sembra veramente che Noé sia stata una fonte di ispirazione, ma il regista cileno deve concedere al collega una potenza visiva e una capacità di composizione dell’immagine che non può emulare. La cifra stilistica è quella e si fa anche apprezzare, ma dà comunque la sensazione di qualcosa di posticcio.
C’è fede da parte del regista in Ema e in tutto ciò che rappresenta, non guarda al nuovo che la generazione di lei personifica come a una degenerazione, affronta speranzoso questa esperienza di alienazione sentimentale che riveste i figli della modernità, e perciò la famiglia può essere a questo punto anche un’organizzazione complessa sul modello di una comune, più madri e più padri e fratelli non di sangue tutti assieme, traendo quindi la conclusione opposta di Sion Sono in Noriko’s dinner table. È una posizione, è possibile avvicinarcisi o meno, eppure permane qualcosa di irrisolto alla base perché Ema non è disposta a rinunciare al suo lanciafiamme: vuole una libertà autentica ma la sua è una liberazione, è sempre reattiva, non è autosufficiente ed è sempre un “liberarsi da“, anche se pare esserne consapevole teoricamente (stando a quanto dice alla direttrice della scuola di ballo almeno).
Ema, e così tutto il film che coincide per il 90% con la sua costruzione e caratterizzazione, è un personaggio esplosivo, ma anche instabile. Larraín non è Pascal, non fa “professione di contraddizione” e cercando di ottenere una totalità ideale si ritrova con un po’ di tutto e un po’ di niente. Ema e (l’opera) Ema sono multiformi, contraddittorie, incongruenti, non si riesce a tenerle assieme, scivolano indifferentemente dalla suggestione affascinante alla riflessione infantile; non c’è nitidezza. Il Pablo Larraín che verrà sarà molto interessante se continuerà a battere questa strada, ma questa volta sembra andato parzialmente fuori fase.