Dopo aver presentato il director’s cut del suo Battleship Island (2017) alla 20esima edizione del festival, il maestro dell’action coreano Ryoo Seung-wan torna a Udine con Escape from Mogadishu, spettacolare racconto per immagini di una altrettanto spettacolare storia vera: la fuga del corpo diplomatico coreano – Nord e Sud insieme – dalla capitale somala nel 1991.
Nemici nell’agone diplomatico, l’ambasciatore della Corea del Sud Han – Kim Yoon-seok, la superstar di The Chaser (2008) e The Yellow Sea (2010) di Na Hong-jin – e quello della Corea del Nord Rim – Huh Joon-ho, comparso di recente nella serie Kingdom (2019) e in Illang: The Wolf Brigade (2018) di Kim Jee-won – dovranno seppellire momentaneamente l’ascia di guerra per uscire vivi da Mogadiscio, sprofondata nella guerra civile in seguito alla sommossa dei ribelli dello USC. Rischiando la loro vita e quella dei propri cari, i due ambasciatori si ritroveranno inaspettatamente sotto lo stesso tetto, pronti a negoziare con qualsiasi ambasciata sia disposta a farsi carico dell’evacuazione di entrambi i corpi diplomatici, nonostante l’incompatibile appartenenza politica.
Non c’è nessun finto film di fantascienza né task force della CIA, ma l’atmosfera che si respira nella Mogadiscio dell’ultima fatica di Ryoo è la stessa della Teheran di Argo (2012) di Ben Affleck, dove il caos generato dal rovesciamento di potere costringerà un manipolo di funzionari a dare fondo a tutto il proprio ingegno pur di trovare una via di fuga dall’inferno scatenatosi intorno a loro.
Ancora una volta, il regista di The Unjust (2010) e The Berlin File (2013) torna a confrontarsi con la storia del proprio paese, scegliendo tuttavia un episodio più problematico e recente rispetto all’abusato periodo dell’amministrazione coloniale – cornice del sopracitato Battleship Island –, materiale prediletto di quegli autori che, al pari di Choi Dong-hoon in Assassination (2015) e Kim Jee-won in The Age of Shadows (2016), nella scorsa decade hanno cavalcato la pur legittima ondata di anti-nipponismo – scaturita in principio dalla posizione negazionista mantenuta dal neoeletto Primo Ministro Abe sulla questione delle ianfu (donne di conforto), dopo l’incoraggiante apertura dei precedenti governi a guida del Partito Democratico – arrivando a creare la naziexploitation alla coreana, nella quale si ravvisa però un mancanza di interesse a ragionare criticamente sulla controversa eredità dell’occupazione.
Al contrario, in Escape from Mogadishu Ryoo non si fa remore a mettere in bocca ai propri personaggi parole molto dure circa la natura repressiva del governo dell’allora presidente Roh Tae-woo, le cui purghe rosse sarebbero di fatto paragonabili a quelle bianche del Presidente Kim, e a evidenziare come la corsa tra le due Coree – paesi entrambi ancora in via di sviluppo – per il riconoscimento internazionale passasse attraverso la disinformazione e la corruzione della classe dirigente locale. Più vicino a 1987: When the Day Comes (2017) di Jang Jun-hwan di quanto non dia a vedere, Escape from Mogadishu è un film d’azione inaspettatamente politico che, almeno nei confronti della controparte nordista, si astiene da una rappresentazione faziosa del nemico, evidenziando come l’ideologia e il conseguente indottrinamento non avessero ottenebrato il buonsenso della missione diplomatica in Somalia.
Tutt’altra cosa è invece la descrizione del momento critico che il paese africano stava attraversando in quegli anni, dal momento che poco o niente viene detto sulla sua storia né, tantomeno, si avrà occasione di sentire la campana degli abitanti del luogo, relegati a ruoli appena abbozzati e comunque subordinati – sia linguisticamente che gerarchicamente – ai personaggi coreani. Questo, unitamente alla prolissità dell’atto iniziale del film – ovvero il colpo di stato e la conseguente fuga dello staff dell’ambasciata della Corea del Nord –, che mal si collega col secondo blocco tutto inseguimenti e sparatorie, costituisce uno dei limiti maggiori della pellicola, dal momento che i fatti realmente accaduti chiamati in causa necessiterebbero di altrettanta onestà politica anche per quanto concerne la parte oppressa – ovvero il popolo somalo.
Ciò detto, Escape from Mogadishu riconferma il talento del suo autore, così come la tendenza del cinema coreano di largo consumo a voler guardare indietro alla propria storia con occhio più critico, trovando un giusto equilibrio tra la propaganda subliminale in odore di stelle e strisce e la volontà di riconoscere gli errori del passato, onde evitare di ripeterli.