Potrebbe essere ambientato ai giorni nostri e sarebbe comunque attuale: in Portogallo dal 1975 e per circa due decenni, molte fabbriche furono occupate e gestite dagli operai stessi. Tuttavia questo film si ispira alla omonima piéce musicale (De Nietsfabriek) scritta e rappresentata nel 1997 da Judith Herzberg, la più importante drammaturga olandese vivente.
Il lunghissimo film (quasi tre ore) inizia con il tentativo nottetempo, da parte dei proprietari di una fabbrica di ascensori di Lisbona, di smantellare i macchinari in modo da poter poi licenziare gli operai e chiudere la fabbrica al più presto, per rilocalizzarla altrove. Ma l’occupazione e un lungo e tenace picchetto svolto dai lavoratori sventa il piano dei padroni.
Naturalmente si tengono lunghi dibattiti e discussioni sul da farsi, fino alla ventilata ipotesi di autogestione della fabbrica. Man mano che il caso “monta” ai sindacalisti locali si aggiungono anche quelli francesi e italiani, interessati a far sì che il “caso” portoghese sia portato all’attenzione pubblica per farne un modello.
Parallelamente si segue la vita privata e lavorativa di Zé, un giovane operaio che vive con una compagna, forse straniera, e il suo bambino di sei anni. Zé ha un anziano padre che vive di piccoli lavori e che nasconde un animo ancora rivoluzionario e battagliero.
Questo è un riassunto molto essenziale, ma il film si compone di varie trame, quasi ci fossero tre film impastati insieme che tuttavia potrebbero vivere di vita autonoma. Sembra che il regista, il quarantenne di Lisbona Pedro Pinho, al suo primo lungometraggio, abbia voluto mettere in una pellicola sola tutto quello che da una vita aveva in mente di rappresentare. Si potrebbe infatti suddividere tra vicenda della fabbrica (in stile La classe operaia va in paradiso”), vita di Zé e infine i dibattiti politici. Ci sono poi da aggiungere i vari intermezzi musicali con operai che ballano in fabbrica, stile Full Monty; Zè che si esibisce con la sua band al bar del quartiere e altri episodi secondari.
La pellicola ha un andamento straniante, che vagamente ricorda Manoel De Oliveira, a tratti invece pare un documentario come se a riprendere fosse il sindacalista che guarda lo svolgersi degli eventi e effettivamente a un certo punto si scopre che li sta condizionando e anche assai pesantemente.
Ciò nulla toglie al fatto che il film abbia risvolti particolarmente interessanti, specie i dibattiti dei sindacalisti molto “Bobo” (Borghesi Bohémien), che discutono a tavola tra abbondanti libagioni sulla crisi del capitalismo, sul futuro della classe operaia.
Crisi economica e crisi ideologica sono dunque i fili conduttori analizzati con una certa attenzione e non senza profondità, serietà eppure anche ironia, ma appesantiti da troppe distrazione e siparietti musicali e di svago.
Già ospite della Quinzaine des réalisateurs a Cannes 2017, A fábrica de nada potrebbe essere per il regista un biglietto da visita ricco e importante.
Il 35° TFF ha assegnato al film una menzione speciale con la seguente motivazione: “Per aver mostrato la difficoltà di un autentico processo democratico che diventa una reale opportunità nella ridefinizione condivisa dei valori e dei bisogni personali e sociali. Dimostrazione di un cinema che diventa strumento attivo di cambiamento”.