Che Michael Moore si fosse innamorato dell’Italia e di Roma era evidente dall’originalissima introduzione dedicata al Bel paese in Where to invade next appena tre anni fa, ma – per sua stessa ammissione – una parte delle motivazioni che lo hanno indotto a presentare Fahrenheit 11/09 a Roma è rappresentata dal fatto che le similitudini tra la situazione politica statunitense e quella nostrana gli sembrano più che numerose. Dichiarazione forse e in parte di comodo, ma vale la pena ricordare che il primo film dell’era Trump (e necessariamente dunque su Trump) di quel tondo patrimonio culturale americano che è Moore si sarebbe prestato benissimo a uno di quei contesti più in vista o modaioli che traggono solo che benefici dallo scatenare polemiche simili, di questo bisogna rendergli atto.

Nell’ultimo biennio siamo stati letteralmente sommersi dalla serie di documentari che sulla scia delle ultime elezioni ha dato vita in brevissimo tempo a una cinematografia piuttosto vasta sull’America contemporanea e sul turning point che avrebbe rappresentato per l’immediato futuro il responso delle urne in data 11/9; è sufficiente ritornare indietro di poco più di un mese a Venezia 75 per ricordare i punti di vista di Wiseman, Minvervini, Morris, che pur con esiti opposti costituiscono dei documenti a loro modo interessanti, in particolar modo il primo. D’altro canto nel momento in cui si accosta un evento del genere al cinema non può che balenare nelle menti di chiunque lo conosca il rubicondo faccione di Moore. Da sempre un’intelligenza sopraffina, una mosca bianca nel panorama culturale americano – di bassissimo livello, capace solo di ridurre l’intreccio tra politica e arte a qualche puerile dichiarazione dell’attoruncuolo/a, cantante pop o cestista di turno – le cui opere hanno sempre avuto una solida base su cui strutturarsi. Per qualità del ragionamento, per profondità dell’analisi, Moore è sempre stato un passo avanti nell’affrontare con completezza i fenomeni macroscopici made in USA (a Wiseman invece va concesso il primato per quanto concerne cogliere l’universale nel particolare, e in questo risiede il motivo dell’ampiezza della sua filmografia).

Il punto è che con Fahrenheit 11/9 fallisce. Fallisce non tanto per le difficoltà che si presentano nel tentativo di trattare un argomento del genere in maniera non banale, quanto perché il film è inspiegabilmente manchevole dei pregi che fanno grande il cinema di Moore. Il nostro intanto pone, bene, le basi, cioè parte da un’impostazione sistematica che colloca sullo stesso piano crisi del Partito Democratico, i risultati a lungo termine della globalizzazione e reazione populista – perché questo è, un movimento di carattere eminentemente reazionario – confluito nella figura di Trump, ragionando in termini di analisi politica, complessa e stratificata, non limitandosi a costruire il discorso sul binomio “quello è pazzo/chi lo segue è stupido” (grossomodo quanto espresso da Hillary Clinon quando definì gli elettori di Trump “despicable“). Ma tutto ciò che segue si adagia su un livello di pensiero piuttosto basso, come se l’intuizione iniziale, che più che un’intuizione dovrebbe essere un punto di partenza, bastasse per manifesta profondità. Non ci vuole troppo tempo perché la satira faccia capolino nella narrazione, ma qualcosa nel perfetto meccanismo che prima la regolava sembra essersi inceppato, poiché l’elemento comico, così come tutte le tecniche del cinema mooriano, appare svuotato, manchevole della sottigliezza necessaria per raccontare un avvenimento con un linguaggio che attraverso l’ironia ne enfatizzi in modo differente le contraddizioni, le relazioni.

Non c’è raffinazione nella satira di Fahrenheit 11/9, il che equivale a dire che non c’è satira, giusto per essere chiari. Anzi, in alcuni tratti si vira proprio sul becero, su quell’umorismo povero che rappresenta una perfetta cartina tornasole della mancata comprensione del fenomeno in atto da parte della stampa, dell’infotaiment, della società dello spettacolo, degli organi d’élite (come li descriverebbe Bannon). Sovrapporre la figura di Trump a quella di Hitler, al di là dell’iperbole tipica di una certa categoria di informazione, è il perfetto esempio della noncuranza a livello culturale con cui è stata affrontata la questione da parte della “sinistra” americana, di fatto caduta anch’essa nel populismo intesa nella sua accezione corretta, ovvero il bypassare la logica delle parti, di qualcosa che non potrà mai essere tale da che esiste il parlamentarismo e il paradigma liberal-democratico, un ente di ragione unitario e non frazionato al suo interno. Le virgolette sono d’obbligo perché parlare di sinistra in America equivale a non aver capito il ruolo di quel paese nella storia dalla sua fondazione a oggi, ma il punto è che Moore cade nella stessa posizione che critica, non accorgendosi che le condizioni in cui versa il dibattito ideologico-politico sono parte integrante del problema, limitando di conseguenza la propria indagine a quegli ambiti su cui la strategia trumpiana ha sempre puntato i riflettori in modo da sterilizzare gli spunti costruttivi seri.

Di fatto con questo Fahrenheit 11/9 gioca molto di più a riprendersi (l’ovvio riferimento è al film quasi omonimo che gli valse la Palma d’oro nel 2004) trascurando il lato cinematografico più puro: manca senso per l’immagine, per il montaggio in questo caso, e questo si nota nella forte disunità che permea l’opera, che non vede legarsi troppo bene la backstory di Flint (alla quale poteva e doveva essere dedicato più spazio, in questo modo se ne perde la forza) con il contesto generale Trump-centrico, ad esempio. L’attacco di Moore è sì rivolto verso un sistema, ma nel momento in cui c’è da essere più spietati, cinici, smarrisce la propria strada finendo per finire disperso nelle selve dell’autocompiacimento – perché chi stima Moore lo fa per un motivo ben preciso, e l’opera in questione si limita e reiterarne le varie declinazioni senza però riuscire a confermarsi un vero documento in grado di cogliere la totalità e complessità del fenomeno Trump a livello sociologico e politico, accontentandosi di coglierne solo una (comunque buona) parte. Abbastanza per chiunque altro, ma non per quel Moore che dietro la macchina da presa ha stabilito ben altri standard, forzando l’ambiente circostante ad alzare l’asticella e non omologandovisi. Rimane poi il fatto, nonostante il mezzo passo falso, che sono pochi i Paesi a potersi permettere un “narratore politico” del genere; e per un’ulteriore conferma guardare in casa nostra basta e avanza.