Il primo giorno della 71esima edizione del Festival di Locarno si apre con la proiezione che dà il via al concorso internazionale, e, come era facile prevedere, è Ying Liang, vincitore del premio per la miglior regia nel 2012 con il suo ultimo lungometraggio When night Falls, a prendersi la scena sin da subito.
In A family tour non ci distanziamo troppo dalle tematiche usuali del giovane autore cinese, sempre impegnato, come molti dei suoi connazionali, in una critica sistematica del governo cinese, qui veicolata attraverso un palese alter-ego femminile: Yang Shu. Ella è stata esiliata a Hong Kong in seguito alla regia di The mother of one recluse, e si trova in una situazione ancor più spinosa quando la madre è costretta a sottoporsi a una complicata operazione chirurgica. Le due donne decidono di incontrarsi a Taiwan usando come pretesto per incontrarsi le visite guidate di un’agenzia turistica in modo da evitare attriti con le autorità cinesi.
L’approccio lento e caratterizzato da lunghi piani-sequenza a camera fissa adottato – a suo solito – da Liang è diretto e funzionale al tipo di messa in scena desiderata; con questi minuti affreschi si riesce a portare su schermo quei momenti di interazione organizzata a tavolino che spesso non sono in grado di far trapelare la spontaneità del rapporto. Quella tra Yang Shu e sua madre è una relazione all’apparenza serena, che d’altro canto cela gli spiacevoli ricordi del padre, ingiustamente imprigionato e giustiziato, e la rinuncia alla lotta dell’allora giovane moglie che voleva dare un futuro alla figlia. Questa staticità premia la scelta di una disamina della Cina odierna vista attraverso una tragedia privata e gli occhi di due animi affini a quello del regista, che con il personaggio di Yang Shu porta avanti una sorta di dichiarazione d’intenti per mostrare chi è il rivoluzionaro contemporaneo, individuandolo nella figura dell’artista in modo esplicito e, in questo caso nobilitante, seguendo la traccia di più di un autore di quel cinema originario dell’Indocina.
Ma se da un lato già questo insistere si pone come un incedere filmico discretamente petulante – non si tratta di una formula così complicata o innovativa da richiedere tanto approfondimento – dall’altro non è possibile in alcun modo negare che, nonostante la delicatezza delle riprese e il gran senso per le geometrie, caratteristiche certo non nuove nel cinema di Liang che dimostrano tutto il suo talento, l’esito finale abbia un che di “grezzo”. Grezzo perché nello sviluppare il rapporto tra le coppie se stesso/A family tour e Yang Shu/The mother of one recluse si lascia andare a una destrutturazione semplicistica del mezzo-cinema nella metacinematrografia che invece vorebbe andare a restituire in tutta la sua stratificazione. I suoi raccordi sono eccessivamente potabili e sottolineati grevemente, senza quel gioco di veli che contraddistingue la figura del mise en abyme e ne mostra i lati nascosti, le capacità di andare a raffigurare un quadro, l’ennesimo, veramente raffinato dell’oggetto di cui si tratta.
A Liang funziona molto bene l’aspetto intimistico, trasportando psicologie complesse su pellicola in modo così ampio da riuscire a inserirvi una critica di fatto politica, ma al di là della mera narrazione i suoi passi rimangono incerti e claudicanti, mostrando ancora una volta un autore naïf, che finisce per impreziosire i suoi film di perle e sprazzi di grande talento visivo rendendosi conseguentemente pretenzioso senza quasi volerlo – un paradosso, certamente. In A family tour ritornano quindi le sue incertezze e la sua ingenuità, dimostrando ancora una volta, semmai ce ne fosse ulteriore bisogno, che gli manca il passo per stare alla pari dei mostri del cinema politico cinese, come Wang Bing e il purtroppo sottovalutato Jia Zhangke (tra le altre cose anche membro della giuria ufficiale locarnese di quest’anno) la cui superiorità è senza dubbio scandita dai rispettivi “successi” ottenuti pochi mesi fa a Cannes, rispettivamente con Dead souls e Ash is the purest white.