Terzo lungometraggio di finzione del regista indipendente Amos Why, Far Far Away è una commedia romantica che, utilizzando il pretesto narrativo della ricerca del vero amore, ha come primo obiettivo quello di prendere per mano lo spettatore, accompagnandolo alla scoperta di alcuni dei luoghi più suggestivi – e isolati – della regione a statuto speciale. Peccato che, nonostante la trovata iniziale, il film non riesca a raggiungere il suo scopo, esaurendosi in una serie di scorci privi di profondità e contesto, al punto di rivelarsi un’opera quasi inintelligibile per chi non fosse originario di Hong Kong, in modo da decifrare i sottili riferimenti alla cultura popolare dell’isola.
Dopo la sua prima, disastrosa relazione, il ventottenne Hau – Kaki Sham, presenza intermittente di una manciata di film low budget dell’industria locale, qui al suo primo ruolo da protagonista – è alla ricerca della donna che possa farlo innamorare di nuovo. Certo, la sua timidezza e imbranataggine non sono d’aiuto, ma grazie all’aiuto degli amici di sempre – e della mano del destino – avrà modo di entrare in intimità con alcune delle ragazze più belle dell’isola. Per sua sfortuna, però, abitano tutte in posti parecchio impervi, cosa che lo costringerà a esplorare zone fino ad allora ignote di Hong Kong.
Non è una novità l’attenzione quasi maniacale che Why, giornalista e produttore televisivo – nei cui panni ha curato diverse serie andate in onda sull’emittente locale RTHK –, dedica alla geografia della sua amata Hong Kong, come si può evincere già dal suo primo lungometraggio Dot 2 Dot (2014), in cui si racconta di un’insegnante di mandarino giunta dal mainland che si aggira per l’isola in cerca di un misterioso graffitaro, o ancora nel secondo Napping Kid (2018), un poliziesco dove la componente thriller finisce sullo sfondo per fare spazio a una miriade di riferimenti ai quartieri popolari di HK e alla vita dei loro abitanti.
A sua volta, Far Far Away veste i panni della romcom per andare ad aggiungere nuovi tasselli alla mappa fisica e mentale che attraversa la filmografia di Why, rimanendo sui binari del genere prescelto in maniera più coerente del predecessore ma senza con ciò costruire una propria identità, dimostrandosi incapace di aggiungere qualcosa – o anche semplicemente farsi notare – rispetto alle dozzine di pellicole analoghe che si producono ogni anno nella regione a statuto speciale.
In questo senso, per quanto Far Far Away abbia dalla sua una patina indie visivamente accattivante – il peregrinare in lungo e in largo di Hau è descritto sullo schermo con l’interfaccia di una app di navigazione sviluppata dallo stesso protagonista, dotata di un sarcastico assistente virtuale che di tanto in tanto si prenderà la libertà di apostrofarlo –, il film risulta prevedibile e privo di sostanza, lasciando inutilizzato il potenziale di un cast femminile di prim’ordine – le tre femmes fatales incontrate da Hau sono rispettivamente Jennifer Yu (Distinction, Shadows), Cecilia So (She Remembers, He Forgets) e Rachel Leung (Ciao UFO, Raging Fire) –, alle prese con uno script anonimo e dall’ironia tutt’altro che sapida. A ciò si aggiunge poi il fatto che, nonostante il dichiarato intento illustrativo, le panoramiche o più in generale le vedute dei luoghi prescelti si contano sulle dita di una mano, dal momento che i dialoghi la fanno da padrone, rubando con i loro campo-controcampo la scena a quello che doveva essere il piatto forte del film.
Più simile alla brochure di un’agenzia di viaggi che a un film in senso compiuto, Far Far Away riconferma il fraintendimento di fondo di Amos Why della forma-cinema, il quale dimostra una sensibilità da pubblicitario piuttosto che da autore. C’è da dire che forse, abbandonando l’agone del cinema di finzione in favore di quello documentario, la sua ossessione per il paesaggio di Hong Kong avrebbe occasione di esprimersi più compiutamente.