Presentato e apprezzato tanto a Berlino quanto a New York, The shepherdness and the seven songs ritorna in Europa per la sua terza tappa festivaliera al FESCAAL 2021, dove certo non sfigura, anzi, appare invece come une delle opere più mature tra quelle presentate in concorso. Singh è infatti al suo quarto lavoro (terzo di fiction), e mostra le stigmate del regista affermato, riuscendo a gestire un intreccio articolato che si sviluppa in due filoni complementari – uno fattuale, uno prettamente simbolico – con notevole eleganza.

Tale intreccio raccoglie in sé elementi provenienti sia dal folklore del cuore marwari del Rajasthan, sia da un poema mistico del XIV secolo scritto da Lalleshwari, poetessa originaria invece proprio dalla regione del Kashmir, dove è ambientato il film. Fino a un anno e mezzo fa (agosto 2019) si parlava infatti dello “stato autonomo del Jammu e Kashmir”, ora, dopo il colpo di mano di Modi che ne revocò l’autonomia e con essa lo status di regione contesa fra India e Pakistan, è una coppia di territori senza autonomia federale delimitata da un confine vero e proprio e non più da una linea di controllo effettivo. The shepherdness and the seven songs di fatto parla di questo, e lo fa attraverso la rappresentazione metaforica di un triangolo amoroso a metà fra romanticismo e favola classica. Perno di questo triangolo è Laila, una giovane pastora sposata non certo per amore che si divide tra il legame con il marito e la tribù seminomade di cui adesso fa parte e le lusinghe di un militare locale.

Singh porta avanti, come accennato, due tronconi narrativi: uno esplicito, narrativo, che si focalizza sulla caratterizzazione della sua affascinante protagonista femminile (cui il ruolo di femme fatale però non sembra proprio essere cucito addosso, diciamo), sulla sua forza ribelle e la volontà di autodeterminazione; l’altro è implicito ed emerge fra le righe, ed è quello che vede il film districarsi lungo un discorso sulle velleità identitarie del Kashmir, oggetto di una lunga contesa tra le due potenze dell’Asia meridionale senza essere realmente parte di nessuna delle due, e contemporaneamente isolata dalla catena himalayana. Laila è il Kashmir, fiero e indipendente (?), il marito Tanvir è l’India, un’ancora estranea che tira verso il basso senza contezza del peso che esercita – infatti è piuttosto tonto -, e lo spasimante Mushtaq è il Pakistan, che arde di bramosia ma non è certo innamorato – e nemmeno lui è tutta ‘sta cima poi.

Singh contrappone a questa metafora un tono per lo più scherzoso. Un umorismo dinamico e fisico (Laila mena le mani senza pensarci troppo) si snoda per tutto il film, accompagnato alla conclusione da un montaggio serrato e da una struttura semplice e ripetitiva (sul modello delle favole) che si dipana in un susseguirsi di piccoli episodi dallo sviluppo simile, fino al finale, dove con un colpo di scena dal tono magico e più serioso, come un po’ tutta la seconda parte del resto, Laila finisce per impersonare nello spirito la terra che abita. Le canzoni folkloristiche  sparse per l’opera inoltre contribuiscono a smorzare ulteriormente la tensione, nonché a evocare ancora di più un’atmosfera unica che fa filtrare il senso di oppressione e i sogni di libertà di una popolazione isolata, né hindū né sunnita.

Soppesando il tutto però, manca qualcosa che rimanga veramente dopo la visione forse, un coup di qualche tipo. Dopotutto il film scorre ritmato senza grandi scossoni nonostante l’alternarsi del discorso politico, portato a galla in modo raffinato ma anche pregno di retorica, e il tono rabbioso e duro delle rivendicazioni in qualità di donna della protagonista: se da un lato la sua caratterizzazione è appassionata e formativa, lo stesso non si può dire dell’interpretazione (piuttosto monotona). Insomma, The shepherdness and the seven songs è un film più complesso di come sembra ma quando si arriva alla parte più succulenta cerca di non disorientare troppo lo spettatore, assumendo un timbro magari un po’ troppo “occidentale” con il suo fare conciliatorio. Rimane un’occasione non sfruttata fino in fondo, ma una visione la merita ugualmente.