Al Casino Venier di Venezia, appartato e discreto auditorio, va in scena la prima tranche dei “very short films” (tassativamente non più di 4’) partecipanti alla selezione internazionale della 19esima edizione del Festival des Très Courts. Qui di seguito un breve resoconto della quarta parte.
Massive di Dan Chen
Il primo cortissimo della quarta parte è di fattura semplice: una serie di individui enormi ma invisibili troneggia sulla città rinchiusi nella loro desolazione, nella loro mancanza di riconoscimento. Poco più di un minuto di ampi campi e panoramiche che non vengono invase o rovinate nella loro ampiezza dalle figure umane in green-screen. La grandezza però non è cosa arbitraria né raggiungibile, Massive è quindi una piccola lode al genere umano, che giganteggia pur non visto sul mondo che egli stesso si è creato, nell’ingrandire uomini, come donne, come bambini.
Fingers of steel di Sebastian Linda
A metà tra un mini-ode di un esperto di skateboard per metacarpi e falangi e una genuina testimonianza della forza creatrice e spettacolarizzante della macchina da presa cinematografica, che nel presente corto gioca, girando attorno alle evoluzioni acrobatiche di un pezzetto di plastica, con le proporzioni e l’effetto scenico, saggiando l’occhio dello spettatore. Fingers of steel emana sicnerità nella sua finzione, trasuda apprezzamento per quel fondamento dicotomico realtà/finzione che è proprio del cinema, e ne metta in scena brevemente anche le conseguenze, l’entusiasmo, l’emulazione, l’ammirazione, in questo caso di bambini, che fanno da contrappunto, in quanto sincerità incarnata, all’inganno delle riprese, che giocando con la luce si divertono a rendere mirabolanti piccoli giochini che prevedono solo un po’ fantasia.
Branded dreams di Thom Snels, Ton Meijdam, Béla Zsigmond
Il trittico di registi firma un’opera polemica, iniziando con una citazione che ci ricorda l’onnipresenza della pubblicità nel mondo moderno. Come la maggior parte di questo secondo tripartito troncone, fa ampio uso della CGI e dell’animazione, di fatto consistendo in un succedersi di giochi visivi che vedono particolari di quella che sembra il più incontaminato dei contesti: una foresta tropicale rivela frutti da cui spuntano levette per l’apertura, ragnatele ricordano bottiglie, coccinelle portano loghi bianchi e rossi. Ci troviamo dinanzi a un giardino di leopardiana memoria che non è permeato da morte, bensì da Coca-Cola, in un trionfo di saturazione che certo prende il posto della stragrande maggioranza del lato più tecnico, senza tuttavia comprometterne la visione, fattore da sfruttare quanto la durata di un’opera è così esigua.
The common chameleon di Tomer Eshed
Con questo corto abbiamo un’altra piccola firma all’albo delle lodi umane. Niente rozzi gigantisimi, ma una piccola satira che illustra l’avidità, la ricerca di perfezione costitutiva del genere umano, attraverso un’animazione vecchio stile e sgargiante che prima canta le lodi di una camaleonte dal punto di vista fisiologico per poi sottolinearne la più grande debolezza, una sovraestimazione del criterio di grandezza per il nostro genere di appartenenza così importante. Il corto è simpatico, denso di invettiva, genuinamente scherzosa nei suoi 3 minuti scarsi ma mantiene una semplicità di fondo invidiabile nella sua messa in scena.
Darrel di Marc Briones, Alan Carabantes
Altro corto di animazione che, guarda caso, vede protagonista un altro camaleonte, Darrel, che in un siparietto altrettanto comico, sebbene questa volta in chiave più surrealistica, cerca di fare colpo su un’avvenente camaleontina offrendole degli stuzzichini-mosca. Ora, il corto in sé certo non potrebbe vantare interpretazioni eteree nemmeno grazie alle più fervide fantasie, è semplicemente una brevissima opera senza dialoghi che comunque suscita riso nella sua svolta gore, ovvero nell’accidentale morte atroce della camaleontica lei che finisce tramortita e trascinata da una metropolitana per colpa del protagonista Darrel, che, di fronte al seppur accidentale misfatto, non può far altro che tentare di mimetizzarsi con la parete bianca dietro di lui.
Mrs. Metro di Aggelos Papantoniou
Forse uno dei più interessanti in questo secondo macro-scaglione, Mrs. Metro passa dal surrealismo grottesco di un senzatetto che perde un infante su un(‘altra) metropolitana, alla più cruda violenza psicologica del soffocamento dello stesso ad opera di una controllora (l’eponima eroina Mrs. Metro) per il fastidio che causava ai vicini con il suo pianto. Animato in maniera volutamente spiccia e semplicistica, con questi pochi tratti spessi di fatto assistiamo a uno squarcio su una realtà che vede il bambino essere solo causa di disturbo, tanto da potersi biasimare una ragazza che a lui si trova solo vicina per non tranquillizzarlo e lodare la controllora per averlo brutalmente messo a tacere per sempre, in una scena finale che colpisce per la sua crudezza, che vede la manina dal disegno appena sbozzato del bambino agitarsi invano contro quella mano enorme che gli schiaccia la faccia contro il pavimento della metro per poi annunciare tranquillamente la prossima fermata in un sommesso applauso generale.