Terzo film di fiction del documentarista canadese Philippe Lesage, Genèse continua il percorso autobiografico tracciato dai precedenti I demoni (2015) e Copenhague A Love Story (2016), confrontandosi con le pene che accompagnano la transizione verso l’età adulta in un tono piacevolmente naïve e intimista benché con una struttura non del tutto armoniosa.
Guillame – Théodore Pellerin – e Charlotte – Noée Abita –, fratello e sorella, conducono esistenze separate ma sono entrambi dinanzi a un bivio nella propria vita sentimentale: lui vorrebbe dichiararsi al suo migliore amico, lei trovare una via di scampo dalla sua attuale relazione. Armatisi di coraggio decideranno di prendere il toro per le corna, ma la società non sembra voler assecondare la loro scelta.
Amore e pulsione: questi i due poli della riflessione di Genèse, che mette sullo stesso piano le esperienze pudiche e omosessuali di Guillame e quelle libertine ed eterosessuali di Charlotte. L’atmosfera delle prime sequenze è sospesa e senza tempo, tanto da portarci a credere che il sogno dei protagonisti sia destinato ad avverarsi. Ed è proprio qui che l’autore ci trae in inganno: la magia si rarefà progressivamente scoprendo i meccanismi che regolano la vita in comunità e riportando i fratelli al punto di partenza, se non peggio. Il liceo (Wes)andersoniano dove studia Guillame si rivela un covo di bigotti che ripudia la sua sessualità, mentre il nuovo fidanzato di Charlotte è un dongiovanni che la sprofonda nella paranoia del tradimento.
Anche se lasciata fuori dall’inquadratura, la realtà c’è ed è sempre pronta a colpire i sognatori. Un ritratto amaro che non offre scappatoie o soluzioni di comodo, anche se Lesage avrebbe potuto optare per una soluzione più economica in termini narrativi. Le reiterazioni – le serate in discoteca di lei, le sbronze da scolaretto di lui – sfidano la pazienza dello spettatore, omologando peraltro il regime temporale della pellicola impedendo di apprezzare i momenti di svolta nell’evoluzione dei personaggi. Ciononostante Genèse scorre abbastanza bene e riesce a coinvolgere con la sua semplicità, tradendo le aspettative così abilmente confermate nella sua prima metà.
Resta comunque un grande punto interrogativo, ovvero l’inserto avulso dalla narrazione principale che chiude il film. In questi ultimi venti minuti, ci viene raccontata circa con gli stessi toni una storia d’amore preadolescenziale in un campeggio estivo: lui riesce solo a stringere la mano di lei, e questa rimane delusa e imbarazzata. A parte la canzone popolare cantata dagli animatori del camp – la stessa che Guillame cantava per far divertire i suoi compagni prima di essere ostracizzato –, sembra non esserci nessun legame con quanto visto fino a poco prima. Si tratta certo di una chiusa un po’ fuori luogo per un’opera convenzionale e povera di vis polemica come Genèse, ma è invero chiarificatoria rispetto a quanto il regista ha cercato di dirci. Dove c’è purezza, c’è per forza incomunicabilità, una barriera di entità tale da impedirci di entrare in contatto con l’altro con profitto.
Lesage insomma ribadisce la sua posizione e prosegue nella sua opera di demitizzazione: se I demoni dimostrava che l’infanzia è tutto meno che un’età spensierata, Genèse ci dice che gli anni delle prime “esperienze” non sono da meno. Una prova non proprio brillante nel contesto di questo Concorso Internazionale, ma coerente e genuina.