Il lavoro di Dio è incompleto, ma collaborando possiamo renderlo finalmente perfetto“. Questa frase non esattamente rassicurante, pronunciata da uno scienziato coreano di mezza età dall’aria innocua, è solo una delle tante dichiarazioni d’intenti sorprendenti pronunciate dai numerosi intervistati del comumentario Genesis 2.0, già vincitore come miglior documentario dal mondo al Sundance Film Festival di quest’anno e “ritornato” nel paese del regista, lo svizzero Christian Frei, per essere presentato nella sezione Panorame Suisse  del 71° Locarno Film Festival.
Partendo dal viaggio di un gruppo di esploratori nelle sperdue Isole della Nuova Siberia alla ricerca di resti ben conservati di mammut, Genesis 2.0 cerca di spiegare nel modo più lineare e comprensibile possibile un argomento complesso come l’ingegneria genetica, tra ricerche in corso ed esempi dal passato, risvolti scientifici e implicazioni etiche, utilizzando l’avventura dei “cercatori di zanne” come punto di partenza e di confronto con le altre storie raccontate. I resti ben conservati del mammut lanoso che il team sta cercando saranno indispensabili a un gruppo di genetisti per cercare di clonare  l’animale (un po’ alla Jurassic Park) nel tentativo di “programmare” un essere vivente lavorando sul sequenziamento del DNA. A questo progetto e ad altre ricerche simili lavorano anche personaggi singolari come il genetista americano George Church o come il meno morigerato collega coreano Hwang Woo-suk, arrestato nel 2006 per le sue controverse ricerche sulla clonazione ma tornato sul “mercato” con una vera e propria impresa di clonazione di animali domestici morti.
In mezzo a questi spaccati su un mondo ignoto alla maggior parte degli spettatori, un mondo che promette di eliminare alcune malattie e addirittura di fermare l’invecchiamento del corpo umano, Frei inserisce le riprese del gruppo di esploratori siberiani alla ricerca delle preziosissime zanne di mammut, riprese effettuate dall’abilissimo videomaker Maxim Arbugaev (giustamente accreditato come co-regista) che decide di raccontare l’avventura dei cercatori di mammut (a cui dell’eugenetica e del DNA sequencing non potrebbe importare di meno) come in una sorta di diario di bordo, raccontandone la solitudine e le difficoltà, tra spedizioni che durano fino a tre mesi, temperature polari e incursioni di animali tutt’altro che estinti (iconica la scena in cui a un membro del team viene strappato di mano il pranzo da una volpe delle nevi).
Sia chiaro, il primo intento di Frei non è quello di presentare chi si occupa di ingegneria genetica come un dottor Frankenstein da fermare, ma piuttosto quello di raccontare a tutto tondo il mondo di chi dedica la vita a cercare di modificare una serie di cose che diamo per immutabili, inserendo nel suo documentario voci diverse e diversi approcci alla stessa disciplina, che spaziano dalla visione quasi da missionario di George Church (il professore americano parla di scrittura del DNA come opportunità per migliorare la vita delle persone) all’approccio un po’ meno rassicurante della portavoce di Hwang Woo-suk, che alla domanda sui risvolti etici di questo tipo di ricerche risponde fissando l’interlocutore in un silenzio imbarazzante.