Una giovane vedova, già priva ogni diritto, infagottata dalla testa ai piedi in un abito nero e informe, rischia persino di non poter più custodire la sua bambina sordomuta.
Un giudice, seppur devastato da sensi di colpa, è tuttavia ancora talmente permeato dalle assurde leggi di una mentalità liberticida e di uno Stato inquisitore, che avversa persino un ignaro e affettuoso barboncino, in quanto per la legge sarebbe un “essere impuro”.

Accanto a questi due personaggi, è però la pena di morte il soggetto latente di questa intensa e drammatica pellicola iraniana, ambientata nella Teheran di oggi, scritta e diretta a quattro mani da una coppia nella professione e nella vita: Behtash Sanaeeha, ingegnere per studi e regista per professione,  e Maryam Moqadam attrice e regista iraniana naturalizzata svedese.

“La pena di morte – afferma il giudice – è un diritto umano. Come si farebbe se tutti i delinquenti fossero liberi di andarsene i giro?”. “E come fanno – controbatte suo figlio – in tutti quei Paesi dove la pena di morte non c’è?”. “Che cosa cambia – ribatte il giudice – tra pena di morte e ergastolo?” Già: che cosa cambia? Dovrebbe saperlo molto bene lui, dato che si tormenta proprio per aver condannato a morte un uomo che, poi, è risultato innocente.

Per quella vita spezzata ora la famiglia potrebbe essere indennizzata con del denaro: denaro sporco di sangue e soprattutto di ingiustizia e disonore che nessuna somma potrebbe riscattare, men che meno quella offerta (l’equivalente di circa 5 mila euro).

Ingiustizia nell’ingiustizia, la vedova è cacciata di casa perché “non si da alloggio a una donna sola, a chi ha cani o gatti e ai drogati”. Eppure non perde il contegno e la dignità nemmeno di fronte alle irriverenti avance e ai perversi ricatti del disgustoso cognato che mentre le parla, come se niente fosse, si pulisce fino in fondo le orecchie con la chiave della macchina.

Più che un film, è un grido di dolore e una lancinante accusa nei confronti di un regime che si professa a favore del popolo, ma che toglie ogni speranza. Senza libertà di pensiero, di scelta, di critica, di azione e senza speranza non esiste popolo, esistono solo vittime sacrificali. La mucca bianca del titolo è infatti l’animale citato in una sura del corano, equivalente del vitello sacrificale, innocente eppure mandato a morte in nome di una ideologia o di un qualche dio lontano, astratto e indifferente.

Il film, coproduzione tra Iran e Francia, è in concorso nell’edizione on line del 71° festival del Cinema di Berlino 2021.