Accolto con generale pregiudizio alla luce della pesante eredità di cui si fa carico, Ghost In The Shell di Rupert Sanders è il primo e attesissimo live-action all’interno del franchise basato sull’omonima opera a fumetti di Masamune Shirow, risalente al 1989.
Nell’anno 2029 il confine tra uomo e macchina è sempre più labile. Il maggiore della Sezione 9 di Pubblica Sicurezza Mira Killian – Scarlett Johansson – è il primo esemplare di individuo completamente sintetico: vittima di un attacco terroristico che l’ha privata dei genitori e del suo vero corpo, deve la vita alla dottoressa Ouelet – Juliette Binoche – e alle industrie Hanka, che ne hanno preservato la coscienza – il ghost del titolo – trasferendola in un ricettacolo all’avanguardia. Con gli uomini della sua unità il maggiore sta dando la caccia a un hacker di nome Kuze – Michael Pitt – intenzionato a colpire i dirigenti della Hanka, ma non si tratta di un sovversivo qualunque. Passando per glitch, depistaggi e scontri a fuoco, Mira verrà a conoscenza della vera identità del cybercriminale, inaspettatamente connessa al suo oscuro passato.
Nell’approcciare adattamenti di fenomeni di culto, si solleva in primo luogo la questione della fedeltà rispetto all’originale: fedeltà che, nel caso di Ghost In The Shell, non si esplica tanto nell’aderenza alla trama quanto piuttosto al sostrato filosofico.
Per la sua particolare struttura episodica e l’intreccio di diverse storyline, il manga di Shirow è un prodotto che si presta benissimo a questo scopo: lo stesso Mamoru Oshii per i suoi due lungometraggi animati – rispettivamente Ghost In The Shell (1995) e Ghost In The Shell 2: Innocence (2004) – aveva estrapolato e riassemblato spunti narrativi da più di un capitolo, conseguendo un risultato stupefacente in grado di veicolare intatta – anzi, forse persino sublimandola – la riflessione sul dualismo corpo-anima di chiara eco cartesiana nel contesto di un prossimo futuro ipertecnologico.
Perciò quando nel lontano 2008 si diffuse la notizia dell’acquisizione da parte della Dreamworks dei diritti per la realizzazione di un film dal vivo, ci si augurava quantomeno che la pellicola non tradisse il nucleo ideologico che da sempre aveva costituito il punto di forza dei titoli facenti parte dell’universo GITS, contribuendo a suo modo ad arricchire quell’universo. Eppure, per quanto la sinossi possa far supporre il contrario, il Ghost In The Shell di Sanders ha ben poco di nuovo da dire.
La cosa è evidente se si guarda alla caratterizzazione dei personaggi, inesistente all’infuori di quelli principali – e che relega in secondo piano Batou, il fedelissimo del maggiore.
L’antagonista Kuze, che stando a quanto svelato dovrebbe corrispondere al capo dell’Individual Eleven del 2nd GIG dello Stand Alone Complex, appare piuttosto una via di mezzo tra quest’ultimo e il Burattinaio del capolavoro giapponese, senza uno scopo preciso e senza pertanto costituire mai un vero pericolo.
A sua volta, Mira Killian – continueremo a chiamarla così – altro non è che una pallida imitazione della Motoko Kusanagi plasmata da Oshii, su cui grava l’interpretazione di una Scarlett Johansson totalmente asettica – a poco vale la scusante del corpo cibernetico del maggiore, dal momento che questo le dovrebbe garantire una perfetta mimesi delle emozioni umane.
Infine, le figure della dottoressa Ouelet e dello spietato presidente della Hanka – le uniche creazioni genuine del trio di sceneggiatori composto da Jamie Moss, William Wheeler ed Ehren Kruger – , sono poco più che cliché.
Ma la mancanza di autorialità si avverte anche nella regia. Le sequenze più memorabili – si pensi a quella iniziale in cui il maggiore si lascia cadere da un grattacielo o a all’inseguimento del netturbino nella zona allagata – sono di fatto riprese direttamente dalla versione animata del ’95, sia per quanto riguarda la scelta delle inquadrature che per la loro successione nel montaggio. Omaggi che certo fa piacere cogliere, ma che fanno avvertire ancora di più la distanza tra la mente registica di Oshii e quella di Sanders, capace di regalarci godibili momenti d’azione – per quanto talvolta fuori luogo – ma non di utilizzare la macchina da presa come strumento introspettivo.
Un dato fondamentale, ma che nella realizzazione di questo film tutti – dai costumisti Kurt & Bart al direttore della fotografia Jess Hall – sembrano non aver colto, è che Ghost In The Shell è un’opera intimamente cyberpunk, un genere che proprio sul finire degli anni Ottanta si era imposto nel panorama culturale giapponese grazie a registi del calibro di Shinya Tsukamoto – il primo Tetsuo della trilogia è del 1989 – e Katsuhiro Otomo – autore del manga e della versione cinematografica di Akira (1988).
E’ pur vero che forse oggi temi come le implicazioni etiche dell’era digitale, la promiscuità tra uomo e macchina, la tecnofobia, l’ossessione per la mutazione, hanno esaurito la loro carica speculativa, per il semplice fatto che in quel “futuro non troppo lontano” ormai ci viviamo già, e lo stesso potrebbe dirsi dell’estetica che vi gravitava attorno. E la pretesa di rivitalizzare il genere semplicemente con un’iniezione di sfolgoranti effetti speciali, punteggiando le strade della metropoli di pubblicità olografiche e gli interni di led e pannelli luminosi a iosa, rappresenta forse la prova lampante che questo film ha poco da spartire con il suo progenitore.
Sotto questo profilo, come nota a ragione parte della critica americana, il Ghost In The Shell “made in USA” «non è cyberpunk, è cyberposer», e presenta molti più punti di contatto con il blockbuster dall’intrattenimento visuale di quanto non vorrebbe dare a vedere.
E non basterà qualche strizzatina d’occhio ai fan, come l’incursione a pistole spianate di un tachikoma o un brano dal repertorio di Kenji Kawai, a convincerci del contrario.