Incomincia con una poesia di Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via…”
Poi il back stage di un teatro e un personaggio anziano che, prima di salire sul palcoscenico, raccoglie i compagni e recita ingenui e buffi scongiuri, come un ragazzino.
Con questo film, più “mockumentary” che documentario in senso stretto, viene offerto un doveroso e generoso tributo alla vita e alla carriera di Gipo Farassino, morto nel 2013 a 79 anni, e alla città che è stata essenziale per la sua formazione, Torino.
Giuseppe Farassino, detto Gipo, cantautore e poeta torinese, sta alla sua città come Brassens e Brel (che lui conobbe) stanno a Parigi, con lo stesso amore viscerale e con una interdipendenza totale. Farassino, chansonnier anche lui e attore, descriveva i personaggi della Torino dei suoi anni di gioventù e li impersonava a teatro, ma sempre tenacemente nel suo dialetto, ormai quasi estinto, con il quale però sapeva arrivare anche al cuore di chi a Torino non ci era nato: solo lui riusciva a far germogliare radici torinesi a chi era stato sradicato da un altrove lontano, perché raccontava storie vere, di persone semplici nelle quali chiunque si poteva riconoscere.
Il film prende avvio dal ritrovamento di una scatola piena di ricordi e oggetti di Gipo, lasciata davanti al negozio di musica del giovane Luca Morino, a Torino. Luca (che casualmente ha una somiglianza incredibile con Farassino giovane) incuriosito, parte in bici verso la Barriera di Milano, quartiere di Gipo, alla ricerca di chi gli possa fornire testimonianze e informazioni su questo personaggio di cui egli sa poco.
Così scopre che questo artista e musicista aveva girato mezzo mondo con lo pseudonimo di Tony d’Angelo prima di tornare a Torino e iniziare una nuova carriera con il suo vero nome. Incontra molti artisti di questa città che hanno lavorato con lui, musicisti come Johnson Righeira e i Perturbazione; registi come Massimo Scaglione; impresari come Gian Mesturino; intellettuali come Giovanni Tesio; scrittori come Carlo Ellena e scrittore lui stesso, arguto e ironico.
Scopre nelle teche Rai trasmissioni in bianco e nero con ospite Farassino, e persino una intervista di Gigi Marzullo assai giovane. Soprattutto scopre che Gipo era un ragazzo di barriera e tale era rimasto sempre, figlio di quella periferia che oggi stenta a trovare una identità, dimenticando che questo artista l’identità della periferia la aveva già trovata, con orgoglio e passione: nei fumi delle fabbriche, nelle comunità delle case di ringhiera, negli odori dei cortili, nello scatto d’orgoglio di chi è povero e capisce che la povertà non è una vergogna. Tutto testimoniato da struggenti canzoni, vere poesie, come “Ël 6 ëd via Cuni”; il divertente “Sangon Blues” e tanti altri brani fino a i pochi in italiano, bellissimi, “Avere un amico” e “La mia città”.
Luca scopre che Gipo bambino fu provato dal dolore dell’assassinio del padre, valente violinista, proprio all’indomani della liberazione, nel 1945; e poi, uomo maturo, è stato piegato dalla tragica morte di una figlia in un incidente. Ma è stato anche un cittadino che, per amore della sua terra, si era lanciato con entusiasmo in una esperienza politica nella Lega Nord, poi abbandonata quando, vista la piega razzista che stava prendendo il movimento, divenne incompatibile con le sue convinzioni, proprio lui che dell’inclusione era sempre stato fautore convinto e che in una intervista citava gli Scritti Corsari di Pasolini. Tuttavia per quell’esperienza pagò un prezzo altissimo, con l’emarginazione dai palcoscenici che tanto amava.
La regia di questo filmato è ricca di dettagli, di testimonianze, di amici, di calore, di ricordi e di affetto, ma ogni tanto il ritmo si spezza: si passa da momenti di grande sobrietà e di commovente intensità a ingenui siparietti, che sarebbe stato necessario seguire meglio per evitare che apparissero paradossalmente “finti” proprio quelli più autentici, come nel caso del barbiere siciliano che canta in perfetto dialetto torinese.
Il tema “alto” della poesia di Pavese è ripreso poi in chiusura con una poesia analoga a quella del prologo ma scritta da Gipo Farassino, con intensità lirica non certo inferiore: “…questa è una città dalla quale vuoi andare via ma poi ti entra nell’anima…”.
Il film è stato realizzato anche grazie a un crowdfunding (al quale sono felice di aver partecipato).