Emma Ducharme è una ventenne canadese che, un po’ per seguire le orme del padre militare, un po’ per colmare un profondo vuoto interiore, ha deciso di arruolarsi nelle forze speciali dell’esercito del suo paese. Durante i duri addestramenti in vista di missioni in zone di guerra all’estero, Emma sviluppa un morboso rapporto di amore-odio nei confronti del suo superiore, il sergente Richard, che dietro la corazza dell’uniforme nasconde piu’ fragilità di quanto sembri…

Iniziano immancabilmente come quel Full Metal Jacket che, da trent’anni e passa, costituisce la pietra angolare di buona parte dei film di guerra antimilitaristi queste Wars francofone in concorso alla 55esima edizione del Festival di Karlovy Vary. Anche il primo lungometraggio del canadese Nicolas Roy – ex collaboratore di Denis Coté con in curriculum una serie di corti e, soprattutto, una ricca esperienza nel montaggio e nella post-produzione – prende infatti il via con l’ispezione mattutina dei soldati semplici da parte del sergente Richard. E, ovviamente, con la pressione fisica e psicologica esercitata, su ragazzi ancora poco avvezzi alle regole della caserma, dalla voce grossa di un superiore che ha il compito di incutere timore e rispetto e ricordare i tre ben noti pilastri della vita militare (ordre, discipline, obéissance – obbedienza che, come ci fa capire la protagonista con il suo lapsus freudiano iniziale, può facilmente degenerare in soumission). A ricordare il classico sempreverde di Stanley Kubrick è inizialmente anche la struttura del film, dove prima si assiste agli addestramenti e poi si viene catapultati in quel campo minato che è la zona di guerra vera e propria.

In realtà, però, lo sguardo sensibile di Nicolas Roy non è rivolto soltanto alle pratiche umilianti e disumane cui si devono sottoporre i neo-arruolati, né tantomeno alle insidie di quella terra incognita che sono le missioni internazionali, perlopiu’ in paesi lontani totalmente slegati dall’esistenza dei soldati mandati a combattere (qui si riporta la vaga dicitura “Europa dell’Est”, e possiamo solo immaginare che il reparto cui fa capo la protagonista sia impegnato in una qualche operazione NATO nei Balcani o nel Donbass, tanto più che l’ambientazione del film non fornisce nessuna collocazione temporale precisa).

Le “guerre” del titolo non vengono infatti dichiarate né in caserma né in missione ma, piuttosto, entro i confini della problematica psiche dei due protagonisti, assiduamente seguiti dalla macchina da presa piu’ nei momenti di “licenza” che non in trincea. Il soldato semplice Ducharme e il sergente Richard sono in lotta con sé stessi prima ancora che il conflitto si estenda alla loro interazione, in un meccanismo di attrazione-repulsione che è in realtà una variazione sul canonico tema del rapporto tossico tra vittima e carnefice già piu’ volte innestato negli ambienti militari, dove una gerarchia stabilita a priori contribuisce senz’altro all’intreccio di relazioni piu’ o meno morbose (per citare un esempio pure francofono, basti ricordare Beau Travail di Claire Denis, presentato a Venezia nel 1999, dove però l’oggetto del desiderio da parte dei superiori era una nuova recluta di sesso maschile).

Nicolas Roy dà dunque forma a un’opera intensa dove la generica tematica militare, ma anche la piu’ specifica riflessione sulle molestie a sfondo sessuale nelle forze armate, rappresenta piu’ che altro un punto di partenza per un dramma cameristico basato sull’incontro-scontro tra due personalità ambigue, dure e fragili insieme. I due attori principali, la giovane Éléonore Loiselle (giustamente premiata a Karlovy Vary per la migliore interpretazione femminile) e David La Haye hanno entrambi un background teatrale e incarnano in un tandem perfetto personaggi che rifuggono dai facili stereotipi, già visti e rivisti al cinema, della donna soldato in cerca di una rivincita sociale e personale e del sottufficiale autoritario e sadico: al di là della nuca rasata e dell’espressione dura e rabbiosa, la Emma di Éléonore Loiselle fatica a celare una femminilità infantile e delicata che, seppur repressa, preme per tornare a galla ed essere riconosciuta e accettata, in primo luogo dalla protagonista stessa; il sergente di David La Haye commuove nella sua mimica varia e cangiante, ben lontana dalla maschera del suo pari grado kubrickiano Hartman, e ci parla di un uomo con serie difficoltà relazionali e ossessioni non elaborate che cozzano con le sue convinzioni razionali. Un maschio alfa suo malgrado che, forse, rivela il suo vero sé solo quando infrange il tabu’ del militare tutto d’un pezzo, piangendo di nascosto da tutti.

Perché la lotta all’ultimo sangue combattuta in Guerres è quella tra i due fronti, affini e contrapposti al tempo stesso, di una triste battaglia senza vincitori. A trionfare, in ultima analisi, è l’incomunicabilità tra solitudini, tra vuoti contenitori rivestiti di corazze impenetrabili che solo un’esplosione violenta, come pare suggerirci il finale, può scalfire.