Presentato qualche anno fa alla Festa del Cinema di Roma e ora al suo battesimo nelle sale giapponesi, Haiku on a plum treerappresenta l’esordio dietro la macchina da presa di Mujah Maraini-Meleni, che con questo documentario ricostruisce una delle pagine più nere della propria storia familiare dimostrando tuttavia un approccio non del tutto maturo al mezzo.
L’antropologo Fosco Maraini, trasferitosi in Giappone nel 1938 con la moglie Topazia Alliata e la figlia Dacia per studiare le popolazioni Ainu dello Hokkaido, al momento dell’armistizio (8 Settembre 1943) si trova dinanzi a un bivio: firmare per la Repubblica di Salò e venir meno ai propri principi, o restare fedele a questi ultimi condannando se stesso e la propria famiglia – cui nel frattempo si sono aggiunte le piccole Yuki e Toni – alla prigionia. Con grande idealismo, Fosco e Topazia persistono nel loro rifiuto del fascismo venendo internati con le figlie nel campo di Tenpaku (Nagoya). Sono quei due anni di stenti e privazioni che la regista chiede alla zia Dacia e alla madre Toni di rievocare, avvalendosi anche della preziosa testimonianza della nonna Topazia – scomparsa nel 2015 –, che nemmeno in quei frangenti smise di prender nota di quanto accadeva sul suo diario.
Realizzato con il contributo del MiBACT e il sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo, l’esordio di Maraini-Meleni – che in fase di sceneggiatura si è avvalsa della collaborazione di Deborah Belford de Furia – parte dalla Sicilia, terra in cui Topazia e Fosco trascorsero i primi tempi del loro amore, contraltare ideale di quell’arcipelago, così distante geograficamente e culturalmente, dove i due speravano di poter lasciarsi alle spalle un Paese nei cui valori non si riconoscevano più.
Muovendosi tra passato e presente, alternando interviste e immagini di repertorio alla ricerca sul campo, è la regista in persona a intraprendere il pellegrinaggio in Giappone sulle tracce dell’orrore, talvolta perdendo di vista i suoi propositi.
Ponendosi come guida un po’ troppo sussiegosa, Maraini-Meleni pecca di protagonismo, come nel caso della sua prima venuta a Tenpaku priva di autorizzazione: questa breve sezione, in cui muove qualche timido passo verso il sito del campo contravvenendo alle indicazioni della guida, è priva di valore documentario – tanto che poi vi tornerà, munita questa volta di permesso – e vuole semmai scimmiottare un certo atteggiamento del cinema verità per cui l’autore si pone in contrasto con l’autorità. Cercando di dissimulare la convenzionalità del suo film, Maraini-Meleni ricorre anche a soluzioni più radicali, come la cornice del dogugaeshi – teatro delle marionette – a opera di Basil Twist con cui vengono messi in scena ricordi particolarmente drammatici, esibendo il teatro di posa e l’artificiosità della ripresa, o gli intermezzi musicali affidati a una suonatrice di shamisen in costume tradizionale.
Benché esteticamente suggestivo e impreziosito dalla colonna sonora di Ryuichi Sakamoto – che per l’occasione ha composto il brano originale Italian Ainu –, il sincretismo e la propensione alla digressione di Haiku on a plum tree sembrano servire più una qualche velleità intellettualistica dell’autrice – se effettivamente di “autorialità” si può parlare per questa opera prima – che una necessità espressiva della stessa, forse timorosa di venire schiacciata sotto il peso del suo stesso nome e delle vite delle intervistate, o di confezionare un prodotto troppo didascalico – quando in realtà si tratta di una delle declinazioni possibili del cinema documentario, anche se non la più originale. L’economia espressiva e puntualità dello haiku che, come da titolo, speravamo di ritrovare, sembra insomma non appartenere a questo lungometraggio, i cui fronzoli sono ben nascosti ma non invisibili.
Haiku on a plum tree resta comunque un film da vedere per quello di cui parla – e un po’ meno per come ne parla –, in primo luogo perché getta luce su una vicenda che è sì particolare per quanto riguarda i soggetti coinvolti ma globale nella inestimabile lezione che Topazia, Dacia e Toni provvedono, ragionando a mente lucida e senza rancori su quello che fu un momento buio per la razza umana in generale. Lezione che sarebbe preziosissima anche per il pubblico nipponico, abituato a vedere il Giappone di quegli anni come vittima piuttosto che come carnefice.