A quattordici anni di distanza da Attenberg (2010), Athina Rachel Tsangari torna in Concorso al festival che la consacrò autrice di statura internazionale presentando Harvest, una parabola agreste sul crepuscolo della civiltà preindustriale che, al di là di etichette di genere poco appropriate – la stessa regista l’ha definito un «western tragicomico», con forse non troppa cognizione di causa –, fatica a ingranare sia sul piano estetico che del significato, nonostante la cura profusa nella scenografia e negli oggetti di scena.

In un villaggio senza nome della campagna inglese, il bracciante Walter ThirskCaleb Landry Jones, che mancò per un soffio la Coppa Volpi della scorsa edizione per il suo ruolo nel Dogman di Luc Besson – si ritrova, suo malgrado, a dover mediare tra l’autorità e i suoi compaesani in concomitanza di una serie di strani eventi. Prima, un incendio, del quale vengono incolpati senza prove due forestieri di passaggio. A seguire, l’arrivo di un disegnatore di carte geografiche, il cui lavoro di mappatura suscita il sospetto della cittadinanza. Infine, un uomo d’affari che, approfittando del rapporto di fiducia col signore locale, vuole convertire tutto l’arabile all’allevamento di pecore. Tutti presagi che annunciano la fine del mondo così come Walter e i suoi lo conoscono…

Tratto dal romanzo omonimo di Jim Crace del 2013, Harvest non fa riferimento esplicito al fenomeno delle enclosure che nel testo originale costituisce la scaturigine degli eventi anomali, cercando una collocazione ancora più atemporale, tipica della fiaba o del racconto popolare, da cui impostare un’equazione tra la progressiva penetrazione del capitale e la perdita di punti di riferimento, con conseguente dilagare del caos. A ciò è dedicata appunto la prima parte dell’opera che, peraltro senza fornire troppi dettagli, descrive le tradizioni del villaggio – come l’uso di sbattere la testa dei più piccoli sulle rocce che delimitano i confini dell’abitato, a mo’ di monito a non avventurarsi oltre, o ancora quello di nominare una regina del raccolto prima di dare il via alla mietitura – e i suoi toponimi, ed è proprio qui che si inserisce il primo elemento di disturbo, ovvero il mappatore – interpretato da un magistrale Arinzé Kene.

Non avendo termini di paragone con altri centri abitati, conducendo un’esistenza di base solipsistica, la palude del villaggio si chiama “The Marsh”, così come la zona pianeggiante “The Plains”, e così via. Ma per chi viene da fuori, e ha necessità di iscrivere su un supporto durevole una descrizione accurata del luogo, apporre nomi è il primo passo per rendere quei luoghi (ri)conoscibili, e quindi controllabili, dall’esterno: ritorna insomma il discorso sul potere normativo della parola, tanto caro alla New Wave greca di cui Tsangari, dal primo Lanthimos fino ai nuovi esordienti prodotti Georgis Grigorakis (Digger, 2020) e Ioanna Tsoucala (Ladies in Waiting, 2023), continua a essere protagonista e promotrice.

Da qui in poi, però, Harvest sembra perdere la bussola, restando incantato dal suo stesso languore fiabesco, senza con ciò riuscire ad affascinare lo spettatore. L’introduzione di personaggi “foresti”, di cui è chiaro il portato ideologico, risvegliano i peggiori istinti dei paesani – a stento mitigati dal buon Walter –, al che l’ossatura ideologica dell’intera opera pare infragilita da una contraddizione di fondo: se, prima delle ingerenze esterne, il villaggio si trovava in una sorta di idillio bucolico, allora si sta avvalorando una sorta di mito del buon selvaggio, per la quale le società agricole non presentavano nessuno dei conflitti della società borghese; se, d’altro canto, si ammette la possibilità che detti conflitti siano connaturati alla vita in comunità – a prescindere dal modo di produzione invalso –, allora si sta implicitamente ammettendo la missione in certa misura “civilizzatrice” del modo capitalista, i cui soprusi sono però sotto gli occhi di tutti, dai personaggi sullo schermo al pubblico in sala.

A ciò si aggiunge una rappresentazione fin troppo caricaturale e lontana anni luce dal genere western, dacché ne tradisce tutti i capisaldi, a partire dalla rappresentazione della violenza – si pensi al fish eye in soggettiva quando l’uomo d’affari viene sgozzato, dove il gesto con il coltello è eseguito con fare ostentatamente teatrale, senza che una goccia di sangue venga versata.

Insomma, il volto del capitale non è mai abbastanza crudele, e quello del popolino mai abbastanza benevolo, per farci prendere parte, con empatia o partecipazione politica, alle peripezie di Walter e compagni. Come i suoi personaggi, Harvest rimane prigioniero dei suoi ristretti confini, e di una scrittura più interessata alla ricerca della parola peregrina che alla costruzione della tensione drammatica.