I premi della 69esima Berlinale si distinguono fortemente da alcuni ultimi palmares molto controversi (si vedano in primis proprio alcuni esiti dell’anno scorso, contestati da larga parte dei critici…), e in linea di massima possono essere accettati come più che plausibili e corrispondenti alle qualità oggettivamente evidenziate in uno dei concorsi più deboli del decennio. Del resto l’ultima annata della conduzione Kosslick dava da prevedere una certa stanchezza e mancanza di entusiasmo, laddove si spera fortemente in un rilancio della manifestazione e in un deciso cambio estetico di rotta con l’arrivo della conduzione a due dell’anno prossimo, dove a dare una forma adeguata al Festival di Berlino del 70esimo anniversario contribuirà in modo decisivo anche il nostro Carlo Chatrian.

La giuria era presieduta da Juliette Binoche, affiancata fra gli altri dall’attrice tedesca Sandra Huller e dal regista cileno Sebastian Lelio. Fra i giurati vi era anche l’americano Rajendra Roy, esperto della nuova “Scuola di Berlino” di cui guarda caso una delle premiate, Angela Schanelec, fa parte: il suo I Was at Home, but… è un esempio di cinema che si situa fra la sperimentazione (anti-)emotiva e il lavoro da festival programmaticamente respingente. Non che manchino elementi anche di forte interesse nel suo quadretto metropolitano di stramberie psicologiche e incapacità anaffettive (una sorta di incomunicabilità 2.0 in versione isterica), ma le linee di sviluppo della sua drammaturgia esile e centrifuga non sembrano essere amalgamate nel migliore dei modi. Una vicenda, una sottotraccia in particolare, quella della donna che lotta per farsi aggiustare una bici e si affanna a gestire i due figli senza padre, avrebbe ben figurato nel cortometraggio di un Wes Anderson in versione depressa e desaturata, ma le altre trame (ivi compresa una enigmatica messa in scena del finale dell’Amleto da parte di una scolaresca) non sembrano fare “corpo unico” con il resto e dare sangue e vita ad un film sostanzialmente autistico. Il suo Orso d’Argento come migliore regista sembra fortemente motivato dal suo giocare in casa e dalla necessità di piazzare nel palmares un’opera di programmatica antipatia intellettuale.

L’Orso d’Oro invece ha ben altra polpa e sangue da offrire: si tratta di Synonymes, opera terza del talentuosissimo israeliano Nadav Lapid, che mette in scena una travolgente, profonda, ma anche ironica vicenda di rifiuto di identità nazionale e ricerca di nuove coordinate antropologiche. Stante forse anche il livello medio non eccelso degli altri concorrenti, questo di Lapid si era subito stagliato come uno dei film che volavano a diverse spanne sopra gli altri, e forse per apprezzarne a fondo l’intelligenza bisognerà rivederlo a mente fredda, e convincersi (crediamo che non sarà difficile) che le sue qualità sono oggettive e non solo risaltanti sullo sfondo della media grigia del concorso. Un protagonista dal gran physique du role, con gesti, mimica e vigore cinetico che (ci si perdoni l’azzardo) ricordano un po’ il Belmondo godardiano ma forse anche Denis Lavant, Romain Duris e Celentano (…) dà vita ad una rincorsa linguistico-esistenziale che lascia poco scampo allo spettatore e lo coinvolge con punte estreme di ironia acida e autodistruttiva. Speriamo in una distribuzione capillare in versione originale, tanto da poter apprezzare lo scarto simbolico e sostanziale fra il francese accentato del protagonista e l’ebraico che rappresenta qui la lingua della politica aggressiva di Israele e si ammanta dunque di una semantizzazione simbolicamente negativa.

Interessante il Gran Premio della Giuria a Francois Ozon, che con il suo Grace a Dieu mette in scena (senza particolari sperimentalismi…) una sofferta storia di pedofilia sacerdotale, basata su una storia vera attualmente dibattuta in Francia, tanto che la distribuzione del film è sottoposta al dubbio che il suo impatto possa in qualche modo influenzare il dibattito giudiziario in atto.
Può sorprendere ma non scandalizzare il Premio Alfred Bauer (che, ricordiamolo, dovrebbe essere assegnato in vista di particolari novità tecnico-espressive) all’altra tedesca in concorso, Nora Fingscheidt, che nel suo System Crasher illustra le difficoltà relazionali di una ragazzina dalla personalità complessa e dall’energia eccessiva e potenzialmente pericolosa. Il titolo originale si rifà ad un termine del sistema educativo tedesco che definisce giovani impossibili da imbrigliare, in quanto totalmente incapaci di cooperare in una struttura sistematica.

La coppia di attori cinesi Yong Mei e Wang Jingchun (nel film So Long, My Son di Wang Xiaoshuai) si portano a casa entrambi i premi per i migliori attori, versione femminile e maschile; non abbiamo visto il film, ma da quanto abbiamo letto fra i commenti dei colleghi due sembrano le conclusioni da trarre: 1) premi: in sostanza meritati; 2) film: il solito affresco fluviale cinese spalmato su tre ore sovrabbondanti, con rischio-epigonia di Jia Zhangke…

Ci siamo lasciati per ultimo il premio che ci trova più d’accordo e soddisfatti (insieme a quello principale), ovvero il riconoscimento alla sceneggiatura di Maurizio Braucci, Claudio Giovannesi e Roberto Saviano per La paranza dei bambini dell’ormai maturo Giovannesi. Il giovane autore romano conferma di essere ormai più di una semplice promessa: la sua capacità di gestire al di là dei rischiosi stereotipi una ennesima vicenda “a la Gomorra”, il talento nel saper scoprire e valorizzare giovani attori dalla gran presenza scenica e una vivace messa in scena del romanzo di Saviano concorrono a far presenziare più che meritatamente il nostro concorrente nazionale nel palmares finale. Forse ci stava anche qualcosa di più, ma non c’è proprio da lamentarsi: per lo meno uno dei premi maggiori non gli è stato scippato da considerazioni extra-artistiche o campanilistiche che hanno inficiato il parco-premi degli ultimi anni.

Fra gli esclusi, forse la macedone Teona Strugar Mitevska, con il suo urticante e beffardo God Exists, Her Name is Petrunya poteva essere preso in considerazione: il nome era circolato fra i pronostici degli ultimi giorni ed aveva riscosso non pochi favori, ma questa storia di femminismo balcanico e anti-istituzionale ha probabilmente dovuto lasciar spazio alle due registe-donne di casa, e accontentarsi di una manciata di premi minori, come quello della Giuria Ecumenica, mentre il nostro premio personale al film più ridicolo dell’anno va al porno-soft finto impegnato di Isabel Coixet, Elisa y Marcela, che invece di fare testimonianza civile sul primo matrimonio lesbico della storia spagnola irrita e sconforta con le sue scenette di sesso voyeuristiche e in sostanza maschiliste. Una vera contraddizione in termini.
Auf wiedersehen, Berlin, buona fortuna, Chatrian.