E dopo un anno di buio torna la luce del Globo di Cristallo. Nel 2020 il festival ceco aveva dovuto cedere alle limitazioni pandemiche e prendersi una pausa obbligata, ma quest’estate, seppur spostato avanti di un mese, ha ripreso con coraggio il suo percorso. Il concorso, infatti, è stato decisamente di buon livello, pochissimi i film che hanno deluso. I cechi erano presenti con una nutrita schiera di nomi nelle due sezioni competitive, e la novità è che proprio dalle produzioni di casa sono venuti i due premi assegnati a documentari, forse a suggerire un percorso di indagine nuovo alla cinematografia locale. Altro fattore rilevante è la messe di riconoscimenti andata a registi che si presentavano con loro opera prima o seconda, a conferma che a queste latitudini si presta molta attenzione ai nuovi talenti.

Il Globo di Cristallo per il miglior film è andato al regista serbo Stefan Arsenijevic, con il suo intenso Strahinja-As Far as I Can Walk, storia di profughi sulla rotta balcanica, che lottano per il diritto ad un’esistenza decente nell’Europa dei nuovi muri. Anche tramite un interessante parallelo con la tradizione epica locale il film prova a trascendere la dimensione dell’hic et nunc e vuole farsi immagine di una aspirazione più universale, quella di una vita a pieno titolo e di una realizzazione anche professionale per chi non si accontenta dell’etichetta eterna di “rifugiato” e vuole invece riguadagnare agli occhi del mondo lo status originario di “essere umano”. Meritato il premio per la migliore interpretazione maschile ad Ibrahim Koma, che incarna con pervicacia la sua quest alla ricerca della donna amata e della propria giustizia personale in una corsa a perdifiato fra le frontiere di Serbia, Ungheria ed Austria. A conferma, poi, che questo è stato il beniamino della Giuria, arriva anche un terzo premio per questa che è una coproduzione fra Serbia ed altri quattro paesi europei (a dimostrare una certa unità d’intenti umanitaria pan-europea almeno a livello cinematografico), ossia la Menzione Speciale per la fotografia di Jelena Stankovic. Fra i riconoscimenti “non statutari” il film serbo ha ottenuto anche, prevedibilmente, il Premio della Giuria Ecumenica.

Il Premio speciale della Giuria è andato ad un documentario (a nostra memoria è la prima volta che un film non di fiction ottiene qui tale riconoscimento), Every Single Minute della ceca Erika Hnikova, che ricostruisce la quotidianità dolcemente ossessiva di una famiglia che ha deciso di tirare su il proprio figlio seguendo un moderno metodo educativo iper-funzionale, il “Kameveda”, che prevede (come da titolo) che ogni singolo minuto della vita del bambino debba essere sfruttato per il suo miglioramento psichico e fisico, con una combinazione di istruzione, allenamento mentale, gioco ed esercizio fisico che dall’esterno ci è sembrato un po’ massacrante… Apprezziamo la cura e la finezza con cui la Hnikova ha seguito passo passo un anno della vita del piccolo Michal, fino a registrarne in chiusura i primi successi atletici in un meeting di appassionati del sistema in questione, ma rimane l’impressione che l’aspetto ossessivo da setta salutista che tale tipo di educazione comporta sia un elemento fondamentale, che la regista decide comunque di non commentare, privilegiando un approccio osservazionale.

Il tedesco Dietrich Brüggemann si porta invece a casa il Premio per il migliore regista, per il suo . Tredici episodi/quadri dalla vita di una generazione centro-europea di trentenni indecisi sul da farsi. Con il suo misto di ironia e realismo risulta godibile e attuale, soprattutto se si conoscono le metropoli tedesche soggette alle nuove pressioni sociali, come gentrificazione, gestione di ondate migranti e relativi movimenti di reazione, nonché alla necessità di ridefinire i concetti di famiglia e coppia. L’altro riconoscimento attoriale, quello femminile, va ad Eleonore Loiselle, che interpreta una giovane soldatessa sottoposta a pressioni familiari e ambientali in un esordio, Wars del canadese Nicolas Roy, che combina motivi alla Full Metal Jacket (nella prima parte dell’addestramento) al dramma della violenza sessuale in ambienti lavorativi. La Loiselle è credibile e coinvolgente con il suo misto di estrema minutezza fisica e complessità psicologica.

Per non lasciarsi dietro troppi scontenti, i giurati hanno poi voluto segnalare con una Menzione Speciale anche il film della debuttante croata Sonja Tarokić The Staffroom, che disegna con deciso piglio registico le faglie di contrasto e le lotte interne di una scuola pubblica, e la intensa Vinette Robinson per il suo ruolo in Boiling Point, tesissimo piano sequenza unico che ricostruisce la guerra di nervi e le traiettorie esplosive di una serata in un ristorante stellato. La serie impressionante di insulti, improperi e parolacce volanti ha fatto riemergere più di una volta il fantasma di Gordon Ramsay nella sala di proiezione…Rimangono a bocca asciutta il maggiore nome di casa, Vaclav Kadrnka, che non sembra aver convinto con il suo cinema un po’ cerebrale e ultra-rigoroso, e il nostro Claudio Cupellini, ma soprattutto un buon film iraniano, The Exam, di Shawkat Amin Korki, che con il suo afflato metaforico e la sua leggerezza didattica ci ha ricordato a tratti il miglior cinema iraniano degli anni Novanta: comprensibile dunque che almeno la Giuria dei critici, capitanata da Birgit Beumers, gli abbia assegnato il Premio FIPRESCI.

Per quanto riguarda l’altra sezione competitiva, dedicata specificamente al cinema del bacino est-europeo (almeno in origine, ché ora i confini sono stati un po’ allargati…) rileviamo che a parere di chi scrive sono stati davvero evidenziati film di sicuro valore, che ci trovano dunque d’accordo sulla scelta. Ha vinto questa sezione il film jacuto che batte bandiera russa Nuuccha, con cui Vladimir Munkuev riesuma il dolore per la propria etnia sottoposta alla colonizzazione zarista. Il Premio Speciale della Giuria va ad un tostissimo esordio femminile dalla Macedonia, Sestri, con cui Dina Duma imbastisce una sensuale storia di rivalità adolescenziale senza sconti e buonismi. Intensive Life Unit della giovane ceca Adela Komrzy è invece l’ottimo documentario che ha ottenuto l’ultima segnalazione di questo secondo concorso, una Menzione Speciale. È la narrazione delicata e tutt’altro che voyeuristica di un reparto di malati terminali in cui vengono applicati nuovi metodi psicologici per suggerire, sia da parte dei pazienti che dei parenti, nuovi approcci alla realtà imminente della morte.

Nel complesso dunque il festival si conferma terra di scoperte e di giovani talenti, in quanto sono stati numerosi i premi per i registi esordienti o alla loro seconda prova autoriale. Pochi quest’anno, com’era prevedibile, gli ospiti stranieri, ma ben tre star di prima grandezza hanno calcato il tappeto rosso del Cinema Thermal, Ethan Hawke (a lui è andato il Premio del Presidente del Festival), che ha ripresentato il capolavoro First Reformed di Paul Schrader, Michael Caine, Globo di Cristallo alla Carriera, e Johnny Depp, sempre più “rifugiato europeo”, che, come era prevedibile, ha chiuso in un bagno di folla l’ultima giornata del festival.

Dopo uno stop doloroso e forzato, anche qui nel centro dell’Europa il cinema ha ripreso a girare, e ne va dato atto e riconoscenza allo staff organizzatore. Arrivederci dunque a Karlovy Vary, si spera l’anno prossimo senza più troppe limitazioni.