In occasione della 79esima Mostra del Cinema di Venezia, il 6 settembre alle ore 12:00, nella cornice dello spazio FEdS dell’Hotel Excelsior del Lido, il Premio Robert Bresson di quest’anno sarà assegnato al regista giapponese Kore’eda Hirokazu, fresco di successo con la sua ultima fatica coreana Baby Broker (2022), valsa a Song Kang-ho il riconoscimento come miglior attore all’ultimo Festival di Cannes.

Il Premio, assegnato ogni anno dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e la Rivista del Cinematografo, con il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura, del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede e dell’Istituto Giapponese di Cultura e il contributo della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Ministero per la Cultura, al regista che «abbia dato una testimonianza, significativa per sincerità e intensità, del difficile cammino alla ricerca del significato spirituale della nostra vita», è stato attribuito con la seguente motivazione:

«Punto di riferimento fondamentale della nuova leva registica giapponese, Kore’eda è il regista che più di ogni altro ha saputo aggiornare i canoni della scuola nipponica, indicando attraverso una poetica estremamente intima e personale il punto in cui tradizione e modernità si guardano, si sfidano, si abbracciano. E laddove i suoi coetanei hanno continuato a interrogarsi sulla generatività del trauma (l’atomica, da Hiroshima a Fukushima) nella mentalità e nella cultura del proprio paese, Kore’eda ha preferito setacciare la coscienza del Giappone dentro l’orizzonte più ampio dell’occidentalizzazione del gusto e dei costumi, ponendo questioni decisive come la memoria, la morte, la famiglia, l’amore, sotto la lente binoculare di una sensibilità ibrida, globale, fortemente contemporanea».

Un riconoscimento che non solo rende onore all’autore in sé, ma contribuisce anche a puntare i riflettori sul cinema giapponese contemporaneo, oggi come non mai bisognoso di nuovi impulsi e mentori, minacciato dall’avanzata del gigante culturale sudcoreano.

Kore'eda_Bresson

Regista non immune a cadute di stile ma che ha sempre saputo riabilitarsi nel suo percorso di maturazione artistica, Kore’eda è rimasto fedele a un nucleo fondamentale di temi che ha contribuito a garantirgli l’apprezzamento non solo della critica internazionale – sicuramente più sensibile nel giudicare pellicole come la scoraggiante opera seconda Afterlife (1998), la malriuscita sortita nel jidaigeki Hana (2006) o ancora l’esperienza francese di La vérité (2019), risoltasi in una sorta di imitazione di certo metacinema d’Oltralpe, – ma anche del grande pubblico nazionale, tanto che il suo è uno dei pochi cinema d’autore a essere entrato a far parte della cultura generale giapponese.

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Uno di detti temi è sicuramente la famiglia, che gli è valsa paragoni – a volte appropriati, altre meno – al cinema classico di Ozu Yasujirō: tuttavia, non bisogna commettere l’errore di semplificare due sguardi per loro natura assai differenti, con Ozu che raccontava vita e turbamenti della piccola borghesia del dopoguerra – quello che la critica del suo tempo definì come un vero e proprio genere a sé, lo shōshimingeki (“drammi della piccola borghesia”, per l’appunto) – inserendo comunque sotto traccia una critica alla sua mentalità eccessivamente retriva o, viceversa, proiettata verso l’affarismo bieco lasciato in eredità dall’occupante; dal canto suo, Kore’eda non appare mai eleggere una classe sociale a suo oggetto precipuo di indagine, quanto piuttosto guardare agli “emarginati” in senso lato, siano essi parenti di terroristi (Distance, 2011), orfani (Nessuno lo sa, 2004), donne di silicone (Air Doll, 2009) o, semplicemente, individui che non possono o non vogliono trovare una collocazione all’interno della cosiddetta “famiglia tradizionale” o del mercato del lavoro, cercando di capire come e perché ad accomunare queste categorie umane vi sia la volontà di creare dei legami, nonostante tutto.

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Per quanto la motivazione addotta per l’assegnazione del Premio Bresson non riesca a cogliere nella sua interezza l’essenza del cinema di Kore’eda, riproponendo una stanca dicotomia tra Giappone e Occidente, tra modernità e tradizione – quando in realtà il Giappone stesso, al suo atto fondativo come Stato-nazione, già nasceva “occidentalizzato” e ibridato, puntando all’avanzamento di scienze e arti secondo i crismi delle grandi potenze europee, preservando con grande orgoglio il proprio patrimonio culturale e religioso – e mancando di riconoscere che anch’egli, come autore, è tornato a ragionare in chiave personale sui traumi collettivi del proprio Paese – il sopracitato Distance fu uno dei pochi film a confrontarsi con le cicatrici e le paure recondite lasciate dall’attentato dell’Aum Shinrikyō del ’95 –, è pur vero che la sua filmografia ha contribuito ad ampliare l’orizzonte del cinema giapponese esponendolo alle tendenze in voga all’estero, appassionando al contempo il pubblico internazionale con storie dall’afflato universale, “opere-mondo” il cui spettro semantico resta intelligibile tanto in patria quanto in terra straniera.

A seguire, allo scopo di completare questa breve panoramica su Kore’eda Hirokazu, Nonsolocinema riporterà le parole del regista in occasione della cerimonia di premiazione del 6 settembre, dove il regista avrà modo di discutere della sua personale visione cinematografica e di società giapponese con gli studenti di orientalistica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, presenti all’evento in delegazione.