A distanza di una settimana dal debutto de Il sogno di Scipione al Teatro Malibran di Venezia, il Teatro La Fenice accoglie quello de Il re pastore, opera di Wolfgang Amadeus Mozart scritta a cinque anni di distanza dalla prima. La loro vicinanza nel cartellone del teatro si traduce inevitabilmente in un’operazione di indagine sull’evoluzione della scrittura di Mozart, e in un confronto più o meno spontaneo dei caratteri distintivi di ciascuna opera.

L’allestimento scenico di Davide Amedei rimarca in due quadri distinti i due atti dell’opera, quasi a ricordare come il libretto di Metastasio, originariamente scritto in tre atti, sia stato ridotto dall’intervento di Giambattista Varesco. Nella prima parte un autobus abbandonato è posizionato al centro del palco ricolmo di sabbia a simulare il deserto, mentre un albero, unico elemento costante, svetta dal finestrino. Ai due lati della scena i blocchi monolitici la irrigidiscono visivamente, marcando il perimetro entro il quale si svolge l’azione per la regia di Alessio Pizzech, che sviluppa una serie di atteggiamenti ampiamente stereotipati e debitori della commedia più tradizionalista, scontrandosi per lo più con i costumi di Carla Ricotti che non riescono a offrire una degna caratterizzazione dei personaggi. Così il pastorello Aminta rimarrà ingabbiato nelle sembianze femminili della voce che lo interpreta, mentre Alessandro Magno indossa una corazza simil-futurista sopra l’abito blu a bande geometriche nere, comune ai suoi servitori, che altro non serve se non a irrigidire maggiormente l’impianto scenico. Un florido giardino incorniciato da alte pareti di siepi, invece, è lo sfondo sul quale si avvia il secondo atto. Al centro l’albero si presenta ora spoglio, per poi rifiorire sul finale grazie all’aiuto di un finto sipario violaceo goffamente calato dall’alto.

A controbilanciare la componente visiva, un cast di primo livello diviene il contesto ideale alla chiara e delicata incisività vocale del tenore Juan Francisco Gatell, vera star di questa produzione. Insieme a lui, Aminta si esprime con voce di soprano, sebbene fosse stato preferibile quella di un sopranista, come richiesto in origine da Mozart: agile e penetrante il timbro di Roberta Mameli si trova a suo agio nel registro grave così come in quello acuto, conservando il tratto caratteristico nelle arie del pastorello come nei bellissimi duetti che animano l’opera e strappano il gradimento del pubblico che affolla il teatro.

Buona la prova dell’Orchestra della Fenice che, come per Il sogno di Scipione, è condotta da Federico Maria Sardelli: abile a individuare il giusto tempo per ogni situazione e a sostenere il canto a ogni sua manifestazione, un po’ meno ad assicurare l’equilibrata coesione degli strumenti che la compongono.