Seydou e Moussa – Seydou Sarr e Moustapha Fall – sono due ragazzi senegalesi che condividono il sogno chiamato Europa. I due cugini, armati solo dei pochi soldi messi da parte e di qualche maglietta da calcio tarocca, vogliono raggiungere l’Italia e costruirsi un futuro migliore. Le speranze dei due, suffragate dall’ingenuità dei sedici anni, si infrangono presto contro le avversità della traversata: il viaggio attraverso il deserto, i lager libici, l’incertezza del mare aperto. Tutto per arrivare a quel momento in cui all’orizzonte si scorge un profilo terrestre che può voler dire salvezza.

Ci sono voluti sei mesi soltanto per scrivere Io capitano, da aggiungersi ai due anni necessari per la fase di studio e preparazione, necessitante la ricostruzione di un percorso realistico e una solida documentazione quanto a testimonianze dirette. Non si tratta di un film facile né da concepire né da realizzare, tanto dal punto di vista narrativo (esige di serpeggiare evitando retorica e speculazione sulla sofferenza altrui), quanto dal punto di vista visivo (siamo inondati di immagini che riportano o manipolano il fenomeno fino a spogliarlo dei suoi significati e ridurlo ad aggregati di pixel, di fatto consumandolo).

Chiudendo l’ampio cerchio aperto proprio all’inizio della sua carriera con Terra di mezzo, Garrone porta in scena un film che arriva direttamente dall’altro lato, svuotato dai riferimenti occidentali che pure popolano le fantasie dei due ragazzi e da considerazioni di tipo strettamente politico, girato quasi integralmente in lingua wolof e con attori non professionisti nei ruoli principali, ricostruito a partire da episodi realmente avvenuti in viaggi differenti e innescato dalla vicenda paradossale di Fofana Amara, a cui va attribuita la paternità dell’immagine finale che dà anche il titolo all’opera e che gli costò una denuncia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Lo stesso Seydou Sarr quel viaggio lo ha fatto per operarsi e non perdere la vista come sua madre, perita nel deserto; ora valuta se diventare attore professionista.

Il regista romano, unico italiano dei cinque presenti in concorso a portare un’opera all’altezza del contesto, ribalte le carte in tavola e tenta qualcosa di completamente nuovo pur senza rinunciare alla cifra stilistica che lo identifica nel panorama attuale. Io capitano è qualcosa di difforme, eppure contiene in sé non meno amore per il fiabesco di quanto non ne incubi la cinematografia recente di Garrone, che da The tale of tales in poi esplicita le chiavi sintattiche del racconto di tradizione orale nella sua autorialità. La stessa sceneggiatura è stata comunicata giorno per giorno agli interpreti come una storia, nucleo di una lore da riadattare con crescente libertà di improvvisazione. Io capitano traspone un racconto orale, frutto della ricombinazione di tracce e fotografie, che affonda le sue radici rappresentative nella più ante litteram delle forme narrative: il racconto epico di impianto mitico, quanto di più distante possibile dall’ossessione cronachistica che ammorba lo sguardo sull’evento aggredendone la narratività e accordando paternalisticamente soltanto un parametro documentale.

Quello di Seydou, presto separato dal cugino come lo schema di Propp comanda, è un autentico viaggio dell’eroe e non perché Seydou effettivamente sia un eroe, ma in virtù del suo essere il protagonista della storia. Eroe del suo viaggio, il viaggio, che unisce i topoi puntuali del romanzo di formazione e del road movie, mai agito e sempre agente (attante?), mai orfano della sua arbitrarietà e sempre chiamato a rispondere dell’intero orizzonte degli eventi, Seydou decide. Decide di provare a soccorrere chi rimane indietro, di temporeggiare per rispetto del cugino disperso e ferito, di accettare la tortura per non coinvolgere i genitori, di guidare il peschereccio nonostante tutto. Alla fine diventa eroe davvero, quando nell’immagine conclusiva le suggestioni accumulatesi convergono in un’Erörterung passionale che conferisce e fissa il significato dell’intera opera. Seydou batte la mano sul petto rivendicando la responsabilità che titubante si era assunto, accettandola con ritrovata volontà nell’unico piano totale del film. Uomo e non più ragazzo, sul suo sguardo stravolto si chiude un film che ha portato in scena l’epica con l’unico soggetto passibile di un’incarnazione onesta. Garrone a quel punto rinuncia alla catarsi dell’approdo sulla terraferma perché il viaggio di Seydou è finito lì, il resto è dilungazione.

Io capitano è un’odissea, naturalmente. In quanto tale vede concretizzarsi il passaggio dalla moltitudine alla singolarità, dal sociale allo psicologico. Il viaggio di Seydou è un viaggio universale, è un’estrinsecazione del monomito per antonomasia e per questo conserva delle parzialità. Ricostruire un’analisi componenziale di come va strutturandosi il film configura lo svelamento di una prova di forza – quella di collassare il contemporaneo nel preconscio magmatico di tutte le storie – ma anche offre una prospettiva ristretta, un taglio aspro sulla situazione d’insieme che elide aprioristicamente parti scomode dall’equazione. Garrone sceglie di non raccontare l’olocausto controllato della tratta migratoria né tantomeno di decifrare come universale di quest’ultima e il particolare di Seydou possano coesistere anziché venire inghiottiti l’uno nell’altro, deresponsabilizzando il filmico rispetto all’immagine, spesso lambita e mai risignificata. La scelta è radicale più di quanto non sembri a una prima lettura. Rinunciare alla politicizzazione del girato o al suo portato rappresentativo comporta codificare un’avventura che trascende la propria contestualità. Zavorrata da una pretesa di neutralità forte e altrettanto rischiosa, così come da un certo pudore nella ricerca dell’emotività, Io capitano non può fare a meno di caricarsi sulle spalle una concatenazione di compromessi che iniziano con le perplessità suscitate dall’Africa folkloristica, con la prevedibile colorazione accesa che sbiadisce e si pastellizza lungo il cammino.

Non che Matteo Garrone sia estraneo alla crudezza in alcun modo, ma nell’impostazione del suo ultimo film la collettività e il trauma fondante tracimano nel rimosso. E non a caso il trauma affiora nella dimensione onirica che invece di folkloristico ha ben poco e s’affida alla liminalità insita nella cultura classica (Ovidio su tutti), confidando in un real maravilloso in cui prende corpo la morte; questa affianca al viaggio fisico una sorta di nekyia tascabile che procede in direzione uguale e contraria per farsi carico dell’invisibilità, cioè di quella parte dell’anima del film destinata a rimanere nascosta perché estranea all’epos – chiave irrinunciabile della lettura garroniana. Io capitano è un film difficile proprio perché sceglie di fare compromessi per discordare con l’ipertrofia delle immagini e il dissanguamento della forma narrativa, al di là dell’oggetto di suddetta narrazione; si trattiene e si contiene ma, complice in ultima istanza il talento “topologico” del suo regista che si rivela nella vastità del deserto e in mezzo alla corporeità claustrofobica della barca, realizza un’epica nella e soprattutto della crisi.