Nel giorno d’apertura della 75esima Mostra del Cinerma di Venezia s’apre sì il concorso ufficiale con First Man, segnando così il ritorno di Damien Chazelle presso la rassegna lagunare, ma vengono subito aperti anche i cancelli delle altre sezioni di primo piano come Orizzonti e Fuori concorso. Proprio in quest’ultima categoria è inserito come film d’apertura Isis, tomorrow. The lost souls of Mosul, prima collaborazione tra la giornalista Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi, fotografo, entrambi all’esordio dietro la macchina da presa, con un documentario sugli strascichi dell’ISIS in territorio mediorientale, area di competenza di lei.
Mosul è infatti un’importante città irachena, sulla quale, considerandola una roccaforte impenetrabile, lo stato maggiore dello Stato Islamico ha ritenuto opportuno investire in termini di risorse fresche. Queste sono nient’altro che uno stuolo immenso di bambini e ragazzi, figli dei guerriglieri o giovani di fatto strappati dalle braccia dei genitori, cresciuti ed educati per diventare truppe di riserva o in ogni caso l’esercito di domani. Mannocchi e Romenzi seguono le vicende di questo – si stima – mezzo milione di ragazzi attraverso i loro occhi o quelli delle loro vittime e dei soldati che li hanno combattuti, mettendo in scena un’educazione sistemica alla cultura del sospetto, in questo nuovo mondo in cui la sconfitta dell’ISIS ha lasciato spazio alla nascita di una nuova Mosul che vive nell’anarchia, sempre legata alla legge del più forte nella sua amministrazione quotidiana.
Lo sguardo del duo è certamente non banale nel suo indagare in quello che è oramai considerato più che altro il teatro di una netta vittoria e nel cercare di guardare oltre la superficie andando a raccontare un luogo che magari in Occidente non viene più considerato, ma che certo rappresenta – se non nel breve, almeno nel lungo termine – non solo un piccolo inferno terreno, ma anche una potenziale minaccia nel prossimo futuro, costituendo di fatto il terreno di coltura perfetto per un nuova ondata di terrorismo di milizie.
La domanda posta, più o meno direttamente, rimane quella relativa alla redenzione di un così ampio numero di potenziali terroristi. E nella redenzione sta il senso dello sguardo della mdp di Isis tomorrow, uno sguardo che ha una cifra paternalistica nel documentare i fatti, tipicamente benevolo e spocchioso, purtroppo incapace di cogliere tutte le sfumature di un sistema che invece appare decisamente più complesso. Al pari di Zanani ba gushvarehaye baruti di Farahmand, Isis Tomorrow riverbera problemi di questo tipo di film (ultimamente piuttosto frequente, ahinoi) a metà fra reportage giornalistico e doc in senso stretto.
Il ritratto della situazione geopolitica è di un semplicismo tale che sembra uscito da uno di quei giornali americani schieratissimi, confondendo la propaganda con l’ideologia e le vittime con i carnefici, in una concettualizzazione povera di contenuti effettivi: in soldoni, per Mannocchi e Romenzi l’ISIS consiste soltanto un insieme di pazzoidi ben organizzati che perseguono degli obiettivi senza senso frutto della loro ideologia senza senso, senza considerare nemmeno per sbaglio la situazione geopolitica e gli interessi in gioco da un punto di vista più ampio – minimamente più ampio.
Questa disamina la cui componente essenziale è la pochezza di fatto viene arricchita da un lavoro più o meno completo per quanto riguarda il saggiare la mentalità instauratasi nell’Iraq post-ISIS. Quel “più o meno” è dovuto all’ambivalenza con cui si narra il respiro dell’epoca. I registi sono ben attenti a sottolineare il brutalizzante senso pratico sia della resistenza autoctona sia dei servizi segreti agli ordini dello stato, il loro essersi inconsciamente piegati all’industria di morte divenuta ormai costitutiva di quell’angolo di mondo e la loro prontezza nel giustificare questo tipo di pensiero, ma dall’altro versante non sembrano nemmeno interessati a scavare sulla nuova sovrastruttura che si è imposta in questi anni o sulle “soluzioni concrete” (va bene, NYT?) proposte nei tempi più recenti, trascurando sia quel tipo di pensiero revanchistico e di linguaggio da stato di natura entrato definitivamente nella testa di alcuni ragazzi, che del resto la totale ingovernabilità della zona dovuta anche al disinteresse per la popolazione locale da parte del popolo “liberato” una volta perseguito l’obiettivo meramente strategico-politico. Gretto, in questo frangente.
The lost souls of Mosul offre dunque un ritratto con più d’una sequenza interessante – al di là del fatto che si sta dando per scontato da parte nostra un senso cinematografico nullo per quanto concerne questa tipologia di pellicole – capace di rendere bene alcune problematiche e altre contraddizioni di quel microcosmo, ma ancora troppo poco cinematografico e ignorante per dire alcunché, prescindendo dalla consueta narrazione della guerra in Medio Oriente e le forme che di volta in volta questa assume.