Dopo Tharlo (2015) torna a far parlare di sé in Orizzonti il tibetano Pema Tseden, che a partire dal realismo magico che ne è la cifra dà sfogo alla propria vena mistica per confezionare una pellicola criptica, ambigua, che richiede un percorso quasi iniziatico per essere apprezzata appieno.
Lungo un’impervia strada di montagna un camionista – Jinpa, già sul set con Pema nel suddetto Tharlo – si imbatte in un autostoppista – Genden Phuntsok – in abiti tradizionali: lo fa salire a bordo e tra una chiacchiera e l’altra il passeggero rivela il motivo del suo pellegrinaggio: uccidere l’assassino del padre. Anche dopo essersi separati l’autotrasportatore resterà ossessionato da questa rivelazione, tanto da pensare di portare lui stesso a termine la vendetta dell’altro.
Se ti racconto il mio sogno, potresti dimenticarlo. Se agisco seguendo il mio sogno, potresti ricordarlo; ma se ti lascio entrare nel mio sogno, allora potrebbe diventare anche il tuo.
Con questo proverbio indigeno si apre il film, tra i cui produttori figurano i numi tutelari Wong Kar-wai e Jacky Pang. Tratto dai racconti The Slayer di Tsering Norbu e I ran over a sheep dello stesso regista, nelle parole di quest’ultimo Jinpa è «un film sul risveglio». Protagonista come sempre la sua terra d’origine, dinanzi alle cui tradizioni lo stupore – del nativo, perché allo straniero è precluso – si traduce in estasi. Le interminabili sequenze a camera fissa di vita quotidiana – un tè in una taverna, il risveglio dopo una notte d’amore – che erano state sanzione di quel finora unico piano della realtà, qui descrivono soltanto uno dei mondi possibili. Per la prima volta è paventata in Pema la presenza di un doppio mondo, la cui scoperta avviene come per contagio.
Affascinato e insieme terrorizzato dai propositi omicidi del compagno di viaggio, il personaggio interpretato da Jinpa sprofonda in una dimensione lisergica – il subconscio? – dove tutto è concesso, ma il delirio di onnipotenza non lo esime dal temere le conseguenze di un suo possibile gesto. Ecco che ricompare quindi il ben noto afflato religioso: i vecchi alla locanda disquisiscono dei poteri di un vajra che uno di loro porta al collo; l’uomo su cui calare la spada è un pio circondato da icone dell’Illuminato e ruote della preghiera. Se è il demonio a guidare il protagonista, allora non si spiega perché vi siano delle forze che lo inibiscono. Se davvero ha raggiunto il risveglio, allora la vera dottrina è altra cosa rispetto a quella che gli anziani hanno tramandato.
Contestualizzandola nella desolazione dell’Altopiano Tibetano, Pema mette in scena la sua parabola definitiva sulla perdita di identità, confondendo – spesso pretestuosamente – le acque non appena uno dei due mondi sembra finalmente avere la meglio sull’altro. Il delitto non si consuma, ma fatto sta che non possiamo esserne completamente certi.
Come ogni autore sufficientemente navigato che tenti di superare se stesso, l’ultima prova di Pema è una messa in crisi (mistica) dei modelli da lui stesso codificati, una corsa a briglia sciolta nei territori geografici e semantici della sua poetica. Troppo ermetico e autoreferenziale rispetto al resto della filmografia, Jinpa si farà di sicuro ricordare, anche se forse non per i suoi meriti.