Intellettuale cosmopolita e cangiante, dagli Stati Uniti prostrati dalla crisi economica di Joshua Tree (2014), Li Cheng si sposa in Centro America per raccontare una «semplice storia d’amore» – così recita il sottotitolo di José – ambientata nella a dir poco problematica periferia guatemalteca, sbilanciandosi nella sua ricerca di equilibrio tra verismo e cronaca.

Per pochi quetzal al giorno, JoséEnrique Salanic – vende panini in un bar della capitale. La monotonia è spezzata dall’incontro con LuisManolo Herrera –, col quale inizia una relazione anzitutto carnale e, via via, più intima. Forse è davvero amore e Luis gli propone di partire, lontano dal conservatorismo che impedisce loro di seguire il proprio cuore, ma José è troppo attaccato alla madre per seguirlo. Il conseguente abbandono del compagno lo lascia spaesato: inizia a fare manca al lavoro, si imbarca in rapporti one night stand, trascura la famiglia. Solo una volta rimessosi sulle tracce dell’ex potrà tornare a respirare.

José

Realtà complessa e trascurata quella del Guatemala, come più in generale lo è il quadrante geografico cui appartiene. In cima alla classifica mondiale per criminalità e povertà, il Paese vanta anche una popolazione tra le più giovani in assoluto – la metà ha meno di 19 anni; e questi giovani sono tanto ricettivi verso l’aria di cambiamento che si va respirando quanto oppressi da una società retrograda, paternalistica e cattolicissima. Realtà che, per l’organizzazione dell’istituzione familiare e l’aderenza ai valori, al regista ha subito ricordato la sua terra d’origine.

Estimatore del neorealismo – gli attori sono in gran parte non professionisti – e di Hou Hsiao-hsien – dichiarata l’influenza de I ragazzi di Feng Kuei (1984), evidente nella fascinazione/orrore per lo spazio urbano –, Li racconta nella sua opera seconda quella che è la storia (vera) di centinaia di ragazzi dell’America Latina, cui frustrazione più grande è non riuscire a vivere liberamente la propria sessualità. Schierandosi senza grandi proclami sul fronte LGBT, José è un tabù nel tabù: l’aberrazione – intendiamo ovviamente dal punto di vista della morale tradizionale – dell’omosessualità si somma a quella del contesto socioculturale, dove il maschio si trova in collocato in cima alla piramide, deresponsabilizzato ed educato al confronto fisico e alla violenza.

José

Portando una ventata d’aria fresca nella rosa di questa Mostra, che almeno nella sezione Giornate degli Autori riesce a coronare più compiutamente il presupposto internazionalista, il film, che ha coinvolto esclusivamente maestranze del luogo, è allo stesso tempo un documento prezioso per lo spettatore medio e, per quanto riguarda il mercato interno, un coraggioso unicum nel panorama cinetelevisivo, assuefatto a prodotti dal sapore soapoperistico.

Purtroppo però i meriti di José si esauriscono qui. Ricuperando un discorso che già avevamo affrontato con Crossroads: One Two Jaga, l’intendo documentario – senza con questo termine alludere a una contaminazione col cinema del reale – non è condizione sufficiente a legittimare né nobilitare l’anodinicità di una pellicola. Non si può dire che Li non abbia maturato un proprio stile – predilezione per la cornice e l’over the shoulder – e una propria retorica, ma la «semplice storia d’amore», più che semplice – la semplicità è spesso un valore aggiunto in questo caso – è anonima. Guardando con molta timidezza al primo cinema di Amat Escalante, l’autore lascia parlare la crudezza dei sobborghi di Città del Guatemala e ci riesce pure, senza però preoccuparsi di impostare una messinscena accattivante.

Dei protagonisti di José restano impressi le abitazioni fatiscenti, l’umanità disumana in cui si imbattono, i lavori umili e sottopagati, insomma tutto quello che sta loro intorno ma non la loro figura, che pure la scrittura avrebbe dovuto sostanziare con dovizia di particolari data la mole di dati ed esperienze raccolta in preproduzione. Un film che privilegia il contorno e senza volerlo relega ancora una volta ai margini una parte del mondo che mai come ora sembra aver bisogno di far sentire la propria voce.