Kalak: questo strano vocabolo palindromo, è in groenlandese, una lingua della quale su google nemmeno si trova il dizionario. Significa più o meno “sporco groenlandese”. “Potrebbe essere negativo, ma anche positivo”, commenta Jan, danese al quale viene riferito quell’attributo.
È il 1988 e in pochi fotogrammi viene mostrato un ragazzo dai capelli rossi sdraiato e sopra di lui in vecchio che gli pratica sesso orale.
Poi si passa a dieci anni dopo. Lo stesso ragazzo, ormai da anni trasferitosi in quella immensa e desolata terra, assiste a una lezione di danza tribale groenlandese dove, attraverso una danza e un mascheramento colorato, si invita a prendere confidenza con i fondamentali misteri dell’essere umano: il rosso per la vita e il sesso, il nero per l’ignoto e la morte e infine il bianco per le ossa e la spiritualità.
Forse la scena della danza è la parte più movimentata di tutta la pellicola, che si basa su dialoghi scarnissimi, ridotto a meno dell’essenziale, e su immagini forti e evocative, senza pudori e senza nessun retaggio di antichi o nuovi pregiudizi, con panorami di una natura tanto bella e selvaggia quanto insensibile e indifferente, tanto che ricorda Giacomo Leopardi.
Sembra che tutta quanta la storia umana inizi e finisca lì, con la drammatica vicenda di Jan, infermiere danese che vive con la bella moglie e due affettuosi figli in un villaggio della selvaggia Groenlandia, sforzandosi di imparare la lingua per immedesimarsi il più possibile in quella cultura basica e istintiva.
Una immedesimazione che cela però una fuga disperata, quella dalla sua casa paterna e da quel vecchio, il padre, che era lui ad aver abusato del figlio e che ora, malato terminale, vorrebbe ristabilire un contatto.
Sono all’opposto, il figlio e il padre, eppure uguali nell’essere entrambi affamati di contatti umani, di istinto e di sesso in modo irreferenabile, si potrebbe dire irresponsabile, se alla responsabilità di avere una famiglia si volesse dare una qualche importanza.
Ma la solitudine resta alla base del disagio, e il medico svedese dell’ospedale dove Jan lavora suggerisce una facile scorciatoia con la chimica: “gli ospedali sono i più grandi pusher e per giunta gratuiti”.
“Potrebbe essere negativo, ma anche positivo”: così si potrebbe dire di questo film, che vale comunque di essere visto per accostarci e, possibilmente comprendere, modi di vivere lontani da quasi tutti i nostri tradizionali riferimenti culturali, eppure, in qualche caso, forse persino più convincenti.
Con questo secondo lungometraggio, la regista svedese Isabella Eklöf mette in pellicola l’omonimo romanzo autobiografico di Kim Leine (nato nel 1961 a Telemark, in Norvegia, e cresciuto in una comunità di testimoni di Geova), con protagonisti Emil Johnsen, Asta Kamma August e Søren Hellerup.
Già presentato in concorso al 71mo Festival di San Sebastian, il film è in concorso al 41° Torino Film Festival. le vendite internazionali sono curate da Totem Films.