Rappresentante del Giappone nella selezione delle Giornate degli Autori di quest’anno, Kanata no uta (titolo internazionale Following the Sound) di Sugita Kyōshi continua il percorso di ricerca autoriale del regista, fondato sul tentativo di riunire nella stessa opera poesia, musica – entrambi uta in lingua giapponese, ma scritti con caratteri differenti –, teatro e cinema, partendo ancora una volta dalla fascinazione per il ricordo quale innesco del meccanismo narrativo. Peccato che nel tentativo di andare “al di là” di tutto, nel suo voler essere metacinematografico, metaletterario, e che più ne ha più ne metta, si scopra privo di sostanza e slabbrato.
Commessa in una libreria per l’infanzia, Haru – Ogawa An – si dedica nel tempo libero ad aiutare persone in difficoltà, alle quali la solitudine e la tristezza sembrano avere rubato per sempre il sorriso. È così che la giovane si avvicina a Yukiko – Nakamura Yuko –, una donna di mezz’età con la passione per le omelette, o ancora Tsuyoshi – Hidekazu Mashima –, incapace di comunicare con la figlia. Si scoprirà poi come entrambi siano collegati a diverso titolo alla defunta madre di Haru, e al suono di un misterioso fiume – registrato su nastro – che la protagonista cerca da anni di localizzare.
La sinossi di cui sopra non è che una porzione – a dirla tutta, nemmeno la più intelligibile, vista la rarefazione estrema dei dialoghi – della ragnatela di sottotrame intessuta con scarsa maestria da Sugita, aiuto-regista di Kurosawa Kiyoshi, Aoyama Shinji, Suwa Nobuhiro: una serie di grandi da cui sembra non aver imparato nulla, se non una certa patinatura autoriale – con ogni probabilità frutto di presunzione – che cerca di nascondere dietro l’essenzialità dei mezzi la propria povertà di pensiero. Ed è un peccato, considerando che il linguaggio non lo è affatto: l’uso del formato 4:3 per suggerire la ricerca dell’intimità, a riassumere la vocazione umanistica di Haru, il parossismo del montaggio ellittico, a replicare le lacune e i solchi della memoria, la ricerca di geometrie al fine di caratterizzare i personaggi per associazione anziché attraverso la parola, sono tutti segnali della conoscenza del mezzo da parte di Sugita, il quale però risulta manchevole allorché si viene all’idea che dovrebbe sorregge questa struttura sì articolata.
A differenza del precedente Haruhara san no uta (2021), dove quantomeno la solitudine della protagonista rimaneva il leitmotiv unificante del lungometraggio, o ancora di Hikari no uta (2019), che confutava in partenza l’unicità del punto di vista rivelando una struttura apertamente corale, Kanata no uta tenta ossessivamente di ricondurre il discorso a Haru, senza però fornire indicazioni sulla natura del rapporto con la madre – e dunque dell’entità del vuoto lasciato da quest’ultima –, sui legami che la collegano agli anziani che frequentano il locale centro ricreativo, sul film che questi ultimi e la figlia di Tsuyoshi intendono realizzare, finendo così per andare fuori strada.
Kanata no uta è insomma un compatto – resta l’attenuante della brevità – “vorrei ma non posso”, composto da sequenze il cui nesso spesso si fatica a cogliere, schiacciato dalle sue stesse ambizioni autoriali – che si dimostrano a questo punto nulla più che velleitarie.