Dopo lo scarso successo di critica e pubblico del suo comunque pregevole lungometraggio d’esordio Kinetta, Yorgos Lanthimos presenta all’edizione 2009 del Festival di Cannes Kynodontas, la sua seconda pellicola e prima di finora tre collaborazioni con Efthymis Filippou in scrittura, con cui ottiene la vittoria nella sezione Un certain regard e una candidatura all’Oscar per il miglior film straniero, purtroppo non sufficienti a garantire al film una distribuzione in Italia.
Cinque personaggi senza nome in una grande villa. Il padre e la madre, anzi, Padre e Madre hanno scelto crescere i propri figli senza contatti con il mondo esterno. Solo il Padre può uscire dalla casa per lavorare, mentre sua moglie amministra la casa nella quale i tre figli, un maschio e due femmine, che non hanno un nome e non sanno di doverne avere uno, vivono in una prigionia inconsapevole vittime di un aberrante sistema educativo. Potranno uscire solo quando cadrà loro il canino (il “kynodontas” del titolo), ovvero mai, ma loro non lo sanno, poiché stanno crescendo in un ambiente controllato e severamente regolamentato dove il linguaggio è modificato ad hoc e l’autorità paterna è tutto. La Famiglia è il Mondo. Fino a quando questo torbido idillio non verrà turbato dall’arrivo di Christina, prostituta che il padre introdurrà nella casa per calmare gli appetiti sessuali del figlio.
Tra Haneke e Buñuel
A sette anni dall’uscita del film, ora il paragone più immediato diventa irrimediabilmente The wolfpack: il Padre come Oscar Angulo tiene i casa i propri figli per mantenerli puri, per proteggerli, e per i figli di entrambi il mezzo per salvarsi sarà il cinema. Kynodontas infatti viaggia sulla scia di film come Bad boy Bubby o The village (o lo stesso The wolfpack, da escludersi parzialmente perché si tratta di un documentario), il nucleo dei quali si fonda sulla vita nell’ignoranza di un mondo più grande per il bene comune. Ma se il primo è una sorta di tragicomico percorso di formazione al contrario, e il secondo è una fiaba horror che racconta la piccolezza dell’uomo moderno (felice fino a quando riesce a comprendere spazialmente il suo mondo ma in crisi quando si trova dinanzi a qualcosa di più grande di sé), Kynodontas è un’allegoria molteplice che colpisce la non funzionante collettività moderna attraverso il trittico delle sue manifestazioni reali: famiglia, società, stato.
Tant’è che se gli esempi succitati si rifanno a un tipo di cinema che trova le sue radici nella cultura americana del secolo scorso, Kynodontas recupera quell’approccio rabbioso verso la società anti-comunicativa tipico di Haneke oggi e Buñuel ieri. Però, sebbene il debito del regista greco nei confronti del cinema surreale sia riscontrabile (si veda ad esempio il suo ultimo film in ordine di uscita The lobster) chi scrive non pensa sia corretto parlare di Kynodontas come un film surreale. Lanthimos piuttosto porta al parossismo un’idea, ispirata probabilmente dal caso Fritzl, traendone gli esiti con occhio sapiente senza però turbare il concetto di realtà oltre l’incipit, il che permette al film di restare ancorato alla sfera del credibile e mettere in scena la sua complessa allegoria con la piena attenzione e compartecipazione dello spettatore, facendo in modo che questi trasli il significato del film sul suo mondo rapportando ciò che vede nel film con le sue conoscenze della realtà contemporanea.
L’autorità e l’inganno
Il mondo di Kynodontas è diretta emanazione del potere, non molto differentemente da come succedeva nel filone letterario distopico del ‘900, e analogo ai sistemi di controllo delle grandi dittature del secolo scorso. L’autorità paterna ha creato la Casa e l’ha dotata di regole e confini, i figli sono cresciuti con l’unico desiderio di compiacere il padre e il potere che questi incarna. La superstizione diventa istituzione, i figli infatti obbediscono a leggi inventate ma radicate a tal punto nelle loro coscienze costruite a tavolino dai genitori da sembrare ragionevoli perché il microcosmo che li accoglie funziona perfettamente con quegli insegnamenti. Dall’altro alto abbiamo l’utilizzo della paura come collante sociale; secondo quanto il Padre racconta ai figli loro avevano un fratello morto per aver superato il cancello della villa prima della caduta del canino. Secondo la regola narratologica della necessità del conflitto viene costruito artatamente un nemico – l’Esterno, che si incarna nel Gatto, orribile creatura da combattere in qualità di cani da guardia – convogliando l’innato sentimento di aggressività dei tre figli verso un nemico.
Ma se si crea dissenso verso qualcosa ragionevolmente si cerca di creare assenso verso altro, per cementare l’unità: questo concetto viene incarnato pienamente nel ruolo che Lanthimos attribuisce al gioco. I figli hanno medagliette e adesivi se compiono “azioni meritevoli” e subiscono severe punizioni in caso contrario (come si educano i cani), il tutto avviene attraverso la maschera di un divertimento che si basa sul far sfogare l’istintiva competitività dei figli attraverso l’elemento ludico: panem et circenses. Altro tassello di questo sistema perverso è la rincorsa dell’autarchia attraverso l’eliminazione dell’arte. Lo stesso Stalin pensava che la censura dell’arte fosse pericolosa perché non faceva altro che alimentare l’underground, però il Padre riesce a eradicarla del tutto. Attraverso la totale eliminazione di film, televisione altri mezzi del genere, i figli vengono privati dell’arte, una delle crudeltà più atroci perché genera uno sgradevole sentore di incompletezza, che viene rimpiazzata da filmini di famiglia che ormai i figli conoscono letteralmente a memoria: tale processo permette di generare autarchia all’interno della famiglia, dando ancora sfogo a quell’istinto artistico insopprimibile, dando a essa una parvenza di totalità nella loro vita che esclude a priori qualunque emanazione artistica dell’essere umano.
Nel concetto di sfogo infatti risiede un altro dei temi fondamentali di Kynodontas: i figli, come si diceva prima, vengono educati come cani. Perciò è il loro canino a dover cadere. Simbolicamente, il canino distingue i carnivori ed, etimologicamente, i cani (ovviamente): significa che per loro non ci saranno pericoli quando non saranno più cani, nemmeno umani. Si tratta della radicalizzazione dell’iperprotettività di prima, il culmine dell’ignoranza. Niente fa male quando niente viene compreso. L’uomo non può più quanto sa, bensì meno sa, più è felice. “Un cane è come la creta” viene detto nel film, perché lo scopo dei genitori è educare la prole ai punti fondamentali della vita puritana: il gioco sostituisce il lavoro, la proprietà privata viene vista attraverso il godimento esclusivo della stessa, puerilmente, da parte di uno solo (la cameretta, il letto), il sesso diventa appannaggio esclusivo del maschio, mentre la donna è addetta solo alla cura della casa. Tutto raccordato dall’ipocrisia della classe dominante, i genitori, che usano il telefono, ascoltano la musica proibita, etc.
In questo senso la coppia rappresenta la ragion di stato, che viola le regole in nome di un bene più grande. Ma se il primo gradino dell’allegoria del film è quello del problema generazionale, rappresentato dalla mancanza radicale di comunicazione (si vedrà anche l’utilizzo del linguaggio a proposito), e il secondo è quello del problema sociale, che si ritrova nella disfunzionalità dei rapporti e nelle ipocrisie dei microcosmi sociali che compongono gli stati, aloora il terzo, quello dello stato effettivo, non può non riguardare (oltre che ogni forma di fascismo o nazionalismo) la situazione della Grecia sette anni fa e oggi, che il regista vede con preoccupazione sempre più vicino a una situazione paradossale dove il governo ha sottratto ogni forma di controllo ai cittadini perché questi non facessero pressioni relativamente ai problemi interni, fino al punto di lobotomizzarli uccidendo il loro spirito critico. Così i figli crescono totalmente dipendenti dal Potere e non hanno la maturità politica per viverne al di fuori autodeterminandosi, totalmente condizionati dall’ambiente, con il “range dell’individualità” che si riduce, generando figli/cittadini sempre più uguali.
L’unico ostacolo che si pone innanzi al Potere/Padre però è quello dell’anarchia, dell’uomo nella sua irrazionalità protesa alla felicità nella sua forma di piacere immediato. L’anarchia è rappresentata dal sesso. Il Padre comprerà i servigi di una prostituta per il figlio in modo da evitare questo problema, ma sarà proprio questo l’errore che porterà alla totale e scontata disintegrazione di questo sistema. Lanthimos mostra i rapporti sessuali senza dissolvenze incrociate, sempre attraverso un’inquadratura fissa che riprende i corpi di profilo, mettendone in evidenza la ruvidità, la fatica, l’elemento prettamente fisico, che trionfa in virtù dell’assenza dell’elemento emotivo. Ciò che fanno Christina e il Figlio diventa un atto meccanico (come del resto i rapporti tra il Padre e la Madre, né passionali né sinceri), per nulla spontaneo, che non appaga l’istinto ma risveglia quel sopito desiderio di libertà individuale e curiosità, che con lo scambio di videocassette (Christina molesta una delle due figlie e le dà in cambio innocui oggetti, tra cui, senza pensarci, qualche VHS) trova un terreno fertile e viene infine a galla in un trionfo di morbosità.
Il cinema salvifico
I bambini imparano le regole del mondo reale sperimentando, acquisendo esperienza attraverso i sensi, non credono al dolore fino a quando non si escoriano giocando. Ma i Figli approdano a questo mondo da adulti o quasi, e non hanno un super-io freudiano che riesca a frenarli perché esso è interamente costruito su bugie e nozioni apprese mnemonicamente, quindi devono dare sfogo alle loro pulsioni in senso erotico e violento. Hanno bisogno di vedere il sangue, di provare piacere fisico, perché adesso raggiungono l’età del dubbio con immenso ritardo e vogliono verificare, sperimentare, apprendere veramente per la prima volta nella loro vita. Dunque la violenza è dietro l’angolo, uno sfregio non è causato da rabbia autentica, ma solo dall’effettiva curiosità di vedere cosa c’è sotto la carne; un curiosità originata da un indefinito istinto di aggressività, senza vera malvagità però: non c’è consapevolezza del male. Esattamente così come non ce n’è nell’incesto, visto solo un metodo pratico e reciproco per sfogare ciò che prima veniva convogliato in giochi e paure.
Quando il padre scopre dei doni di Christina è troppo tardi per arginare la situazione, e non può più controllare i figli come una volta: il cinema li ha salvati. Cinema che non è come quello dei fratelli Angulo, non educa alla realtà; quello che i tre adolescenti vedono è un cinema decisamente non d’autore, non cinema d’immagine, ma cinema corporale, fatto di corpi sudati e doloranti (Rocky, Flashdance), film patinati della cultura hollywoodiana che nella loro idealizzata finzione raffigurano nuove verità. Muscoli pompati pompano veridicità nel sangue dei tre ragazzi. L’incesto poi è nuovo, un’interazione tra corpi differente da quella che consentivano i giochi. Quindi questo nuovo atto che da mostro secolare dell’antropologia diventa paradossalmente spontaneo trascende la ritualità dell’atto e si fa anarchico veicolando ribellione inconscia e inconsapevole affermazione d’individualità. Ancora, come cani, i figli sono castrati della loro emotività: come i cani per non dare problemi vengono spesso sterilizzati a pochi mesi dalla nascita, perché non generino vita, così i ragazzi non devono essere capaci di comprendere la vita, ergo gli organi che permetterebbero loro di farlo vengono rimossi con la stessa precisione chirurgica dal mondo costruito dai genitori.
Ma la rimozione dell’aspetto sentimentale dà seguito pure alla rimozione della vita. I ragazzi non sono consapevoli della loro stessa vita e del concetto della stessa per via del suo aspetto generale. Tutto ciò che è collettivo e universale i figli non hanno bisogno di comprenderlo, perché la loro esistenza è puramente autoreferenziale e non hanno bisogno di contestualizzarsi attraverso coordinate spazio-temporali. Per lo stesso motivo non hanno nemmeno un nome. Perché se esiste una sola figlia maggiore dovrebbe essere chiamata in un modo diverso da Figlia Maggiore? Un nome che la determini oltre ciò che già è non è assolutamente necessario, significherebbe un’altra Figlia Maggiore da qualche altra parte, ma ciò non è in accordo con la folle pedagogia di cui sopra, un’ulteriore determinazione non ha significato perché la sua identità è già sufficientemente affermata. Analogamente se non esiste il concetto di vita non esiste nemmeno la sua creazione. La vita è già data. Non c’è il tempo e non c’è la specie, ma solo gli individui collocati in un Eden perverso e avulso da ogni tipo di contesto, quindi si ritorna al soffio di Dio nella creta. Il Padre ha perso il canino e gli è ricresciuto, quindi può uscire nel mondo esterno e usare l’auto, per traslazione la Madre può dare la vita. Come ha creato quei tre figli può generarne altri (questo costituisce un’efficacissima arma di ricatto per calmare i figli: “pulisci la tua camera altrimenti al condividerai con un’altra persona!”). Non esiste gravidanza, non esiste nascita, non esiste nessun corrispettivo della coscienza intellettiva di sé (e quindi nemmeno di un’ipotetica anima), quindi il futuro e l’evolversi e l’entropia non esistono, si vive nel presente e ogni giorno è uguale all’altro. Anzi, non ci sono giorni, ve n’è uno solo che si ripete. Di nuovo, come cani, che non hanno sufficiente memoria a lungo termine per ricordare la propria intera vita, ma hanno un ippocampo capace solo di conservare i ricordi entro un certo periodo precedente al momento in cui ricordano, i figli non hanno memoria effettiva, non selezione di ricordi (i filmini di famiglia sono momenti casuali, liberi da una gerarchia) ma vantano solo un apprendimento mnemonico di regole ripetute fino alla noia. Si parla solo di ritualizzazione, e non di maturazione del ricordo grazie al tempo.
In questo modo quindi, siccome a delimitare la vita dei giovani sono dei miti costruiti dai genitori, tutta la loro esistenza è analoga al mito della caverna di Platone. I genitori hanno legato i figli, arti e teste, al muro della loro idealizzazione e questi vedono le ombre di ciò da cui il Padre e la Madre li proteggono: esattamente come succede con gli aeroplani. La Madre dice loro che sono oggetti di plastica portati dal vento che ogni tanto cadono e chi li trova se li può tenere, e ogni tanto getta qualche modellino nel giardino per confermare questa affermazione cementando fiducia e dipendenza dei figli nei suoi confronti e in quelli dell’autorità che rappresenta. I figli vedono ombre e non se rendono conto anche se il loro istinto li spinge in quella direzione, anche dopo essersi liberati dalla catene, comunque non approdano all’esterno della caverna, ma solo alla dimensione fideistica attraverso la visione di altre ombre, ovvero il cinema, che non è propriamente mezzo salvifico, come in The wolfpack, ma mezzo anarchico, liberatorio.
Però così non v’è verità, non v’è differenza tra ciò che animato è ciò che non lo è, tutto è ombra di un elemento alieno a quel mondo. Se riuscirà una delle figlie, che ha sfidato apertamente le regole con la spontaneità di un bambino, aggirando una legge grazie a una leziosa interpretazione grammaticale (ovvero strappandosi a forza un canino sopportando il dolore), a uscire dalla caverna (nascondendosi nel bagagliaio dell’auto) è affidato all’enigmatico e aperto finale, che segnerà la rottura definitiva della catene della grotta o la chiusura in una caverna ancora più buia, piccola, claustrofobica, dove non esistono ombre perché è bandita anche la luce che le genera.
Il grottesco
Se l’esistenza inoltre di un mondo esterno è a malapena tollerata, un altro elemento fondamentale del film consiste nel linguaggio e nella sua deturpazione, perché bisogna eliminare concettualmente ogni elemento che potenzialmente provocherebbe curiosità o falle contradditorie nei dogmi di cui sopra si è tanto discusso. Se non esiste la parola per indicare un oggetto, non esiste neppure il concetto stesso, perché l’individuo se non può relazionarsi a un qualcosa, allora quel qualcosa, non facendo parte dell’esistenza fattuale, è come se non esistesse. Il linguaggio diventa l’arma più forte per asservire, perché è ciò che sta alla base della comunicazione e permette ogni forma di aggregazione sociale (le varie famiglie, società, stati), e, poiché si basa sulla convenzionalità, chi controlla il linguaggio controlla la realtà. Già nell’incipit del film infatti il linguaggio viene dichiarato espressione, manifestazione e legiferazione del potere. Le prime immagini vedono un registratore che riproduce la voce della Madre spiegare ai figli delle nuove parole. I genitori controllano i figli attraverso il linguaggio, ancora una volta, come con l’arte, non censurando, ma introducendo le parole potenzialmente sovversive nel lessico di tutti i giorni deformandone il significato per abituare i figli a quella determinata accezione in modo che si radichi in loro attraverso l’uso e così prevenga le conseguenze di sentirla pronunciare per errore nel modo giusto.
Le prime parole del film, in una concessione didascalica per meglio comprendere l’allegoria, racchiudono in sé le idee che costituiscono i maggiori pericoli, ovvero i concetti di lontananza (il mare e l’autostrada diventano rispettivamente una poltrona e il vento forte che soffia sul giardino della villa) e di violenza (la carabina è un candido uccello). Ma questa gestione dell’elemento linguistico non si ferma a questo livello aneddotico, anzi, viene riscritto completamente e se all’inizio genera volontariamente della confusione nello spettatore disorientandolo, man mano che si procede con la visione questi s’abitua all’uso diverso dei vocaboli e viene calato completamente all’interno di questo mondo perverso. Analogamente a quanto successo con altri film in passato per coerenza si crea un’intera nuova lingua, tant’è che l’idioma di Kynodontas non risulta semplicemente da una sostituzione di un sostantivo con un altro, ma si articola in false etimologie, strutture semantiche costruite ad arte e nuove regole sintattiche frutto di una ricerca impressionante, andando così a riscrivere completamente le leggi della comunicazione tradizionale per creare un nuovo codice di interazione fra umani, che crea una morbosità di base anche nei siparietti più quotidiani (“papà, mi passeresti il telefono?” a tavola, per indicare la saliera) che crea nell’opera anche un che di grottesco, inquietando lo spettatore anche attraverso l’uso di ironia assurda e straniante.
Quella grottesca è la chiave visiva più alimentata tecnicamente. Come già accennato prima, la regia di Lanthimos si caratterizza soprattutto per l’uso delle simmetrie; è molto sobria, elegante, ma la contempo fredda, e a tratti volontariamente rozza, come creare dei piccoli quadretti squallidi che bucano lo schermo per la loro diretta frontalità rispetto all’angolo di ripresa, annullando così la terza dimensione e generando un senso di oppressione. Non è difficile realizzare che la mdp cerchi di generare claustrofobia per rendere al meglio l’immagine. Le riprese, effettuate tutte attraverso l’uso di una lente anamorfica con lunghezza focale di 50 mm, alla lunga però provocano una sorta di assuefazione dell’occhio dello spettatore alla claustrofobia, così il regista greco, più il film procede, più stringe l’inquadratura e insiste nell’uso della lenta carrellata in avanti, generando il senso di una lenta caduta verso il basso. Proprio per questo quando l’immagine non è totalmente frontale alla mdp, molto spesso l’inquadratura pende decisamente verso il basso o verso l’alto, per generare ancora un senso di schiacciamento progressivo, contro il pavimento, più frequentemente, o il soffitto, in casi più rari.
Questa continua tendenza viene rafforzata dall’uso della fotografia di Thimios Bakatakis, storico collaboratore di Lanthimos, che attraverso una colorazione sporca, sempre filtrata, giallognola ottenuta contaminando in parte la luce naturale, riesce a patinare di opaco la visione, contribuendo al senso di oppressione generale e attraverso l’uso sempre molto simile pur in vari momenti della giornata, coadiuva il montaggio quasi invisibile ma sempre molto regolare e preciso nel creare una sorta di aura si immanenza che avvolge l’unica ambientazione rendendola sempre più una sorta di Eden al di là del mondo reale. Tuttavia Lanthimos non cede a una completa uniformità ma quando il ritmo sembra sul punto di poter essere scandito da un metronomo subito piazza un movimento della camera a schiaffo che disorienta brutalmente lo spettatore, trasportandolo appieno in quella dimensione teatralmente grottesca che genera disagio costante, stimolando anche il voyeurismo dell’occhio del pubblico attraverso giochi sapienti con i riflessi di luce che ostacolano in parte la visione e quella frontalità limitante dell’immagine già discussa. Quindi la regia si compone di brevi carrellate, camere fisse e movimenti minimali con qualche eccezione a turbare l’armonia, ma il fatto di usare spesso sia la carrellata sui binari sia lo zoom ottico allo stesso tempo crea un’indagine dello spazio abbastanza originale, insistendo o sulla bidimensionalità o sulle anomalie visive delle tre dimensioni. E nonostante questo a ribaltare le prospettive vi sono anche singole inquadrature che fanno risaltare ancora di più la spazialità claustrofobica della casa; le due inquadrature del luogo di lavoro del padre, dal sapore quasi neorealistico, riportano veramente alla realtà lo spettatore, mostrandogli lo squallore immediato della fabbrica che s’assimila lentamente a quello mascherato della villa, così come i dettagli insistiti nelle poche scene di violenza fisica sono talmente realistici da sconfinare nel documentario-shock (alla Philosophy of a Knife per intenderci, visto l’esempio della rimozione del dente) e fanno spiccare per contrasto la grottesca fisicità dei corpi in situazione normali nella sfera di quotidianità della villa.
In conclusione, Kynodontas è un film che offre innumerevoli spunti attraverso la sua complessa e articolata metafora che va a toccare l’essere umano in ogni sua manifestazione sociale. A parere di chi scrive è uno dei film fondamentali nel genere allegorico degli ultimi anni, e, seppur decisamente impegnativo, merita (almeno) una visione per la nuova rappresentazione che dà delle motivazioni del potere, rovesciandole. Il potente non è più malvagio o avido, desideroso di sfruttare chi è in balia della sua autorità, bensì trova la sua perfetta personificazione nella figura di un padre, il cui obiettivo dichiarato è quello di far sì che i figli non subiscano soprusi di nessun tipo, ma per perseguire questo obiettivo deve fare violenza lui stesso ai propri figli, condannandoli all’ignoranza. Il discorso si trasla da un piano politico a uno meramente umano: l’obiettivo è il bene superiore, ma l’errore non giace più nella superiorità, ma nella legittimità di essa e nella volontà di controllare l’altro, pur per garantirgli la purezza. Così il risveglio e conseguente tentativo di fuga della Figlia Maggiore si fa inevitabile: uno dei due sistemi deve necessariamente crollare, o la gabbia costruita dal Padre o l’apparato costituito di nuova consapevolezza della figlia, destinata a conoscere nella sua interezza il mondo esterno o a rimanere chiusa fino alla morte in una gabbia ben peggiore.