A ogni Mostra i suoi mostri. Quasiasi edizione festivaliera vede arrivare prima o poi quel film che frustra ogni legittima aspettativa e magari viene sbrigativamente considerato divisivo nella foga del mercato delle opinioni. La bête, terzo lavoro di Bonello in cinque anni, è quel film – almeno per l’ottantesima edizione della kermesse veneziana. Vagamente ispirato a La bestia nella giungla di Henry James, con cui condivide l’assunto di base ma non certo l’intreccio, l’ultima fatica del regista francese si avvolge a spirale attorno al discorso jamesiano sull’incapacità di provare emozioni e, ribaltando la situazione iniziale trai due protagonisti, la sdoppia, la triplica all’interno di un contenitore postmoderno serpeggiante attraverso generi e periodi (mélodrame costumé per il passato, thriller per il presente, dramma fantascientifico per il futuro).
Gabrielle – Léa Seydoux – e Louis – George MacKay – sono innamorati ma nel mondo in cui vivono, governato dallo spettro dell’intelligenza artificiale (molta intelligence, poco artificiale) le emozioni sono cosa detestabile, un fattore disturbante che contamina la perfezione algoritmica con l’imprevedibilità umana. Per liberarsene è necessario sottoporsi a una procedura correttiva, in cui Gabrielle accede a due “vite precedenti” in cui lei e Louis hanno condiviso il medesimo fato sfortunato. Nella prima, durante Belle Époque, le convenzioni sociali soffocano l’amore nascente e poi l’alluvione della Senna annega entrambi, mentre nella seconda, a Los Angeles nel vicino 2014, sono estranei legati solo dall’ossessione di lui ma destinati a uccidersi a vicenda.
(A margine, è probabile che la scelta dell’anno sia un omaggio a Gaspard Ulliel, che aveva recitato assieme a Léa Seydoux in Saint Laurent nel 2014 ed era stato scelto per ricreare la coppia in La bête; Ulliel, come anche Guillaume Depardieu che con Bonello aveva lavorato in De la guerre, è morto tragicamente a 37 anni.)
Laddove James istituiva un rapporto di coimplicazione tra le facoltà passionali e la consapevolezza di essere umani, Bonello vede e rilancia, senza soffermarsi più di tanto sulla precipuità umana dei sentimenti, dando forma con pennellate pesanti a una sorta di controstoria dell’inemotività. Al di là dell’escamotage narrativo e di come queste vite precedenti (appositamente poco sci-fi e molto naïf) sono combinate l’una nell’altra o con i piani subordinati di secondo livello, le répétitions di questo mostro tricefalo vanno a comporre, strato dopo strato, un compendio critico sulla natura delle difficoltà di amare. Le tre parti sono definite separatamente all’inizio ma più la narrazione procede e più si mescolano e si precedono vicendevolmente, a ribadire ulteriormente che si tratta di tre variazioni della stessa storia distanti nello stile più che nel tempo. E ognuna delle tre parti ha gli stessi fili conduttori, si articola nello stesso trittico di momenti dialettici.
Sebbene, appunto, i tre veli del film non siano né scissi né stagni, tutti procedono sullo stesso trinario, composto da una presa di posizione di portata culturale sul paesaggio contemporaneo che incentiva l’anedonia e anestetizza le relazioni, una riflessione dal tono esistenziale sulla complessità di tornare ad amare e sulla paura che comporta, e infine una profilazione quasi sociologica di un modello sostrato di inadeguatezza maschile alla relazionalità poi estrinsecato nei rapporti di potere.
Volendo seguire allora un ipotetico asse delle ordinate dopo quello delle ascisse (le tre storie), il primo momento si articola nella convenzionalità sociale che reprime e surcodifica l’espressione della sfera passionale nel melodramma, nell’atomizzazione del singolo disposta dalla sovrastruttura ideologica nella parte ambientata nel presente, e nel dominio della tecnologia in quella nel futuro; allo stesso modo il secondo momento si articola nel lasciarsi alle spalle il vissuto con altri ieri, nell’attuale permanere di questo storico nell’infosfera digitale offi, e nell’incombente sgrammaticamento affettivo nell’era della sua riproducibilità tecnica di domani; il terzo momento si articola nei tre esempi negativi incarnati dal personaggio di Louis, ovvero il cicisbeo approfittatore e recalcitrante alle promesse, l’incel misogino dalle tendenze sociopatiche e lo zombie irregimentato dalla dittatura delle nuove macchine senzienti.
La doppiamente eponima bestia in agguato è sì rappresentata dalla consapevolezza di farsi scivolare fra le dita quella che viene identificata come la facoltà più autentica e propria dell’essere umano, ma Bonello, come suo solito, sovverte lo psicologismo e gli conferisce una tonalità sociopolitica, vedendo negli sviluppi dell’attualità una convivenza sempre più consenziente con la discesa nell’anedonia, nello smembramento digitale dell’interiorità, nell’incapacità di indagare il sentimento. L’esito è una sorta di dissertazione sulla malattia dell’intelligenza emotiva il cui decorso si accompagna alla frammentazione del visivo (jump-cut, split screen, cambi di aspect ratio, manipolazioni varie ed eventuali).
Ma questa è solo l’architettura di base di La bête, la cui spazialità costruita sulla coazione a ripetere rappresenta l’intelaiatura di un complesso sistema di camere e stanze, come in un labirinto saggistico. All’interno di questo strambo grafo il discorso bonelliano si consuma nella terza dimensione, quella della profondità dei suoi riferimenti citazionistici. Mulholland Drive, L’important c’est d’aimer, Eternal sunshine of the spotless mind, Mr. Nobody, The neon demon, Trash humpers, The lobster, Holy motors, in generale l’Haneke degli anni ’00 ma anche il Kipling di If o il Puccini della Butterfly sono tutti presenti all’interno di un’altra opera ambiziosa che aborre il vuoto e si espande a stella, trasformando ogni scena in nucleo da cui prendono vita diverse diramazioni collegate reciprocamente come una rete sinaptica. Ogni scena contiene una citazione, è un punto nel piano segnato tramite coordinate precise, dando così vita a un rizoma disciplinato in cui la centralità romantica è propagata in tutti i gangli e biforcazioni. E per farlo si serve di un’immaginario consolidato nel tempo privo di una coerenza sistemica la cui perspicuità è affidata invece alla densità delle formule espressive, impudentemente esplicite.
Quello di Bonello è dunque un film sul romanticismo nella sua idealità, nella sua accezione più scevra da incarnazioni, quasi un film sulla passione come astrazione e non sulle attualizzazioni della stessa. Tra le numerose metafore utilizzate con plasticità simbolista più che simbolica, a fare da contraltare figurato a questo sforzo teoretico sentimentale c’è la corporeità di Léa Seydoux, sempre più mostro sacro indiscusso del cinema mondiale anche con il repertorio espressivo di Clint Eastwood, che nella prima scena è se stessa, attrice in una green room (appoggio per la climax del film) che però non è spazio circoscritto, bensì tutto lo spazio possibile. La bête ci propone il mondo intero come spazio filmico e lo fa con insolenza sfacciata, ripresentandola ancora come intervallo quando gli stacchi tra un piano narrativo e l’altro sono ancora rigidi, perché La bête è anche un film sull’apocalisse (ogni apocalisse è un apocalisse del senso) e sulla strenua resistenza necessaria per non risignificare il mondo in un gioco a perdere.
Non è un film perfetto, a ogni modo. Bertrand Bonello non si fa mancare simbologie pacchiane (il piccione) e provocazioni gratuite, come quella del codice QR per fruire a parte i titoli di coda che essendo parte emozionale e non “utile” sono stati polemicamente tranciati, o l’equiparazione forzata dell’eccessiva fiducia nel soluzionismo scientifico alla superstizione, ma lo fa nel nome di una radicalità che ha sempre fatto parte del suo cinema ed esibisce come un manifesto programmatico e forse un po’ mellifluo.
La Mostra del 2023 è giurisdizione della bella e la bestia: Bella Baxter (Poor Things) e la bête nella giungla sono le regine di questa edizione.