Le avventure del commissario Jacopo Zambon, fresco di nomina nella galassia degli investigatori in forza nella produzione letteraria di casa nostra, giungono al secondo capitolo; in Di là dall’acqua (Cleup, 2017) Elisabetta Baldisserotto cala il proprio personaggio in un doppio intrigo veneziano, dando nuova linfa a un impianto narrativo che consolida e approfondisce una formula ben collaudata fin dall’esordio di Morire non è niente (Cleup, 2015). Se il genere noir ha prodotto, negli ultimi anni, numerose varianti nella messa a fuoco dell’antieroe chiamato a sbrogliare, in vario modo, casi delittuosi mescolati ai nodi dei propri interiori incerti, Zambon sembra fissare nel suo percorso su carta una propria strada originale, con non poche anomalie. Baldisserotto, nel dar vita a questo ispettore in continuo movimento (soprattutto interiore) fra “masegni” e bricole, da raffinata indagatrice qual è dello strumentario romanzesco sembra soprattutto interessata a costruire una variante di peso dell’assunto narrativo più vulgato, quello che di solito centralizza il conflitto fra disordine interiore del protagonista e ordine finale della soluzione del caso; ove spesso si calca la mano sulle apparenze di una cronica, costitutiva refrattarietà del primo a sbrogliarlo, per motivi caratteriali, patologici o di contrasto con l’ambiente esterno.
Anche il Commissario Zambon, per suo canto, porta sulla pagina un bel fardello di “pesi” interiori da smaltire, che non lo aiutano certo ad alleggerire l’onere razionale dei propri casi da risolvere: fra tutti, il suicidio dell’amico fraterno Alvise, evento luttuoso attorno a cui ruota l’esordio del primo libro; quindi il rapporto problematico con le donne, tema preferenziale nei colloqui con la sua saggia analista. Tuttavia in questo filone (si pensi per esempio al vicequestore Rocco Schiavone di Manzini), la chiave d’attrazione empatica per il lettore è offerta spesso dall’attraversamento senza sconti del conflitto, con la costruzione di un antieroe centrato su tic e oscurità proprie, in opposizione alle illuminazioni che prima o poi scardineranno e diraderanno le autodifese e oscurità altrui. Nel personaggio creato da Baldisserotto, ogni conflitto pure enunciato sembra immediatamente sciogliersi nel contesto di una Venezia ingombrante e seducente, più fantasmagonica che fantasmagorica, in grado cioè di generare continuamente “alias” di senso rispetto alla centratura di azioni e caratteri e al loro logico dipanarsi nella storia; cosicché la progressione del lettore fra le pagine finisce col disancorarsi da un’empatia diretta col protagonista, motore di decisioni e azioni attorno a cui gravita formalmente la narrazione, per trovarsi impigliata nelle varianti di luce e di colore di un metapersonaggio onnipresente: una “venezianità” vitale e metamorfica, estranea a ogni coloritura o effettistica a buon mercato rispetto all’intreccio; luogo intimo, antropicamente infiltrante, ove ogni personaggio sembra rinunciare a caratterizzazioni contrastive, per confluire in un unico incubatore di senso e di rapporti, a partire proprio dalla funzione connotativa, sulla pagina, dell’uso del dialetto. Gli autoctoni lagunari, siano essi in commissariato, per strada, o coinvolti in qualche festa domestica, sembrano condividere tutti, con precisione tenace, forme idiomatiche d’uso popolare assai particolari, spesso di sapore proverbiale, che non hanno equivalenti lessicali in italiano; una specie di koiné autoinclusiva, volta a riaffermare un livello più profondo di reciproco riconoscimento e umana pratica di rapporti, sulla soglia di un Nulla che incombe e sembra premere sulle vite e sulle rive, fra morti improvvise di persone care ed eclissi di luoghi e memoria; con la voce del narratore, rigorosamente in terza persona, che appena può empatizza con tali intonazioni, importando interiezioni e formule dialettizzanti all’interno di una prosa assai curata e formalmente impeccabile. L’effetto è quello di un gioco di sponda tenace e insistito fra un intreccio ben congegnato, cui non manca un colpo di scena finale spiazzante, e le frequenze “corali” di una narrazione policentrica, sulle spoglie esibite e multicolori di un crimine più grande che torna implacabile a galla, cui neppure le intuizioni del commissario Zambon possono porre rimedio: lo stupro irrefrenabile in atto, oltre la pagina scritta, della più bella città del mondo.