Il settore Teatro della Biennale di Venezia prosegue nell’impegno tripartito di un Festival come luogo di produzioni artistiche; di ricerca intorno a temi predefiniti; di promozione originale di nuovi talenti e artisti.

Si è iniziato il 22 luglio 2019 sino al 5 agosto dello stesso anno, usufruendo dei palcoscenici del Teatro Goldoni di Venezia, del Teatro delle Tese all’Arsenale, quello della Sala d’Armi e del Teatro Piccolo e dei Soppalchi sempre all’Arsenale.

Quattordici produzioni di spettacoli delle migliori Compagnie teatrali italiane e internazionali, specchio dell’ispirazione attuale quanto mai attenta alle esigenze artistiche europee.

Si è aperto con il tema caldissimo – in Mauser – della rivoluzione che divora i suoi stessi figli, pronti a uccidere e disposti a morire per degli ideali sospesi all’interrogazione drammatica delle generazioni attuali e del domani.

Seguono in intensità coinvolgente temi che coinvolgono perché strumenti formativi per una rappresentazione sociale più ampia: quella di Miet Warlop che nel suo MisteryMagnet ricerca la libertà al di fuori di noi stessi o di quello che facciamo.

Le sapienti sequenze di War conducono, fra scene avvincenti dal triste sorriso pacifista e irridente, alla condivisione delle riflessioni dell’autore Jetse Batelaan: ”Abbiamo scoperto che possiamo iniziare una guerra e una performance sulla guerra in un secondo, ma che è terribilmente complicato finirla… Può soltanto finirla con la pace…”

Riuscitissimo Il Cirano deve morire di Leonardo Manzan che, attraverso la plasticità dei concetti ben costruiti e manipolati dagli attori, fa risaltare il bisogno dell’uomo alla protezione della sua autonomia, rifiutando di non essere manipolato dagli altri.

O l’attesa spasmodica e impellente di un segnale di Dio in Nostalgia di Dio di Lucia Calamaro in cui la risposta di Dio non si affaccia nemmeno in un segnale, né in un piccolo tono di musicalità; lei continua ad attendere “di sentire il rumore di Dio” ma non impreca. Dietro l’attesa, Dio approva e tace e rafforza l’angoscia amorosa dell’asceta sofferente. Scene e parole rarissime, e per questo memorabili e refrigeranti in un contesto sociale come il nostro di fitto materialismo.

Ancora più saliente il graffio alla nostra società che facilita la depressione e la mancanza di abbrivi felici: nel suo Saul Giovanni Ortoleva scruta con profondità psicologica il fallimento individuale: “Il fallimento è oggi l’orizzonte più buio, quello che sembra attendere un pianeta che non è stato capace di prendersi cura di se stesso, un sistema sociale basato su una economia che non ha saputo controllarsi”.

La pièce di Suie Dee approfondisce più del lirismo dell’amore la sua drammaticità in un susseguirsi vertiginoso e ammaliante di approfondimenti e immagini nel suo Love. ”L’amore spiega l’Autrice – cova in sé una cruda debolezza : come siamo disposti a sopportare in nome dell’amore e come riusciamo a cavarcela senza”.

L’arte del conflitto è sviscerata in scioltezza e profondità da Pino Carbone in Progetto Due.

L’uomo proiettato nei conflitti interiori ed esteriori si macera in solitudini esasperate o in scontri esteriori dove scorre sangue e distruzione.

In L’anarchico non è fotogenico si sfiora il surreale ”per far risaltare il reale” -suggerisce l’autore Roberto Scappin: è una partitura dialettico-gestuale dal mordente politico e liberatorio. Dà voce al “disobbediente e operativo” per rinnovare e mandare all’aria vecchie strutture per realizzarne di nuove.

Alessandro Serra chiama il suo Il Giardino dei ciliegi una commedia intrecciata di morte, da lo spicco cechoviano, ma risolta con un mordente di riflessioni garbate e irridenti dagli sbocchi purificatori.

Una rassegna maiuscola in cui si tasta il polso dell’innovazione o della stagnazione della letteratura teatrale internazionale.