Al di là del fiume e oltre il bosco, la marchesa de Luna, padrona dell’Inviolata, fa vivere fuori dal mondo una famiglia allargata di un centinaio di anime che coltivano per lei il tabacco in un’economia di autosussistenza, producendo tutto quel che serve a una vita povera. A nessuno di loro è permesso pensare di vivere altrove, pena una ricaduta su tutta la comunità. Uno stato di schiavitù ineluttabile perché un inganno li ha intrappolati nell’isolamento. A sovraintendere è l’amministratore che rifornisce il necessario (pochissimo) per poi scalarlo da un lavoro che di fatto non viene pagato.
Qui, in una casa colonica fatiscente, vive Lazzaro, dalla bellezza arcaica, dagli occhi incantati sul mondo, la cui bontà è sfruttata da tutti. Adolescente dalle braccia forti, Lazzaro ha un’anima silvestre, è un ultimo che risplende. Non si sa di chi sia figlio, ma è certamente il nipote della nonna della famiglia.
L’ordine di un mondo antico a un certo punto si spezza, i colpevoli sembra che debbano pagare, mentre i contadini lasciano la terra; ma non basta lasciare il vecchio mondo per avere posto in quello nuovo.
«È un lavoro bislacco, libero, ci è venuto così. Sono felice sia stato capito» Alice Rohrwacher
Diviso in un primo tempo e in un secondo, in un’età antica e una nuova, lo sguardo limpido della regia ci trasporta da una remota e rigogliosa campagna alla periferia di una città, vent’anni dopo. Un nuovo tempo in cui tutto è mutato, ma nella sostanza no: il male lo attraversa imperterrito, a volte ostacolato da un vento che nasce dall’interno degli uomini, un soffio all’unisono che tenta di fare da barriera.
Sono passati gli anni ed è cambiata la stagione: un’estate di raccolto e di sfruttamento prima, un inverno di espedienti e di indigenza poi. Lazzaro resta uguale: luminoso, diverso, preda di misteriose febbri, volge uno sguardo amoroso a tutti, facendosi ponte tra un alto e un basso, tra i suoi parenti sfruttati e i padroni dell’Inviolata; per poi riapparire come messia eternamente giovane là dove non c’è più come rifugio nemmeno il verde fogliame dei campi di tabacco.
Lazzaro felice ha un tono fiabesco, in foggia realistica: l’inizio restituisce la concretezza e la poesia di un mondo contadino stremato e la fine incanta portando lo spettatore ad avere la necessità di rivederlo ancora, perché è un film che ha una densità difficilmente afferrabile in una sola volta.
Un notevole abilità nella messa in scena dona una forte valenza politica ed ecumenica, ma senza forzature, senza proclami o didascalie: tutto scorre lentamente, nell’intima essenza della narrazione, sbattendo in faccia le contraddizioni che viviamo e frantumando qualsiasi residuo di idealizzazione.
Delicato e graffiante, efficace perché quel che deve dire è intrinseco nella narrazione, nell’articolazione della storia, nei personaggi, nella scelta dell’utilizzo della pellicola 16 mm; le contraddizioni, i pensieri emergono dagli sguardi, dalle poche parole e dai silenzi.
Lazzaro attraversa i mondi e li illumina trovando ciò che resta di buono, il denominatore comune, come le erbe che nascono spontanee e che possono nutrire. Lazzaro attraversa senza giudicare, con i piedi contadini e lo sguardo di un moderno santo che crede senza dover convincere, solo testimoniando sé stesso in compagnia del lupo.
Titolo originale: Lazzaro Felice
Nazione: Italia
Anno: 2018
Genere: Drammatico
Durata: 130′
Regia: Alice Rohrwacher
Cast: Adriano Tardiolo, Alba Rohrwacher, Tommaso Ragno, Luca Chikovani, Agnese Graziani, Sergi Lopez, Natalino Balasso, Nicoletta Braschi
Produzione: Rai Cinema, Ad Vitam Production, Amka Films Productions
Distribuzione: 01 Distribution
Data di uscita: 31 Maggio 2018 (cinema)