Il primo, promettente, film dello scrittore e documenarista Ladj Ly, mozza il fiato.
Les Misérables, questo il titolo del film, è ambientato nello stesso quartiere, Montfermeil (zona est di Parigi), dove Victor Hugo ha dato vita ai suoi personaggi.
Il film inizia con un’immagine di repertorio: la folla esultante e urlante per le strade di Parigi la scorsa estate, quando la Francia aveva appena battuto la Croazia per 4-2 in Coppa del Mondo. E’ ribollente di umanità, nessuna etnia la separa, sono tutti francesi a sbandierare tricolori, esplodendo di gioia. L’immagine che diventa il sogno del regista per la sua Francia.
Seguono poi altre immagini di repertorio delle sommosse esplosive del 2005 nelle banlieue. La Francia attuale delle periferie che ribolle di rabbia. Da queste prende avvio la storia dei “Miserabili” di Ladj Ly.
Stéphane (Damien Bonnard) è un poliziotto dell’unità criminale, che si è appena unito alla pattuglia diurna, insieme ai veterani di zona, Gwada (Djibril Zonga) e il leader Chris (Alexis Manenti). Il loro compito è pattugliare, girare in tondo il quartiere, per far vedere alla gente del posto che è sotto controllo, trovare informatori, tenere a bada la situazione delle comunità – formata da circa trenta etnie – che vivono in periferia.
Stéphane fa presto i conti con il modo di agire poco ortodosso dei suoi colleghi, che si muovono impersonificando la (loro) legge – “C’est moi, le loi!”- ma anche con la struttura piramidale del potere nelle strade. L’autorità “laica” della zona è soprannominato “Il Sindaco” (Steve Tientcheu), gestisce, secondo le sue regole, le bancarelle del mercato, ed è il ponte di collegamento tra la comunità e la polizia. Oltre a lui c’è Salah (Almamy Kanouté), un “jihadista riformato” che manda avanti un ristorante, è un personaggio autorevole che suscita rispetto e referenza soprattutto tra i giovanissimi. Le immagini di inseguimento della pattuglia, non ortodosso, vengono riprese dal drone di uno dei ragazzi della banlieue. Il tentativo dei poliziotti di recuperare il filmato scatena i giovani della zona. Come dirà Salah a Stéphane “Io voglio darti fiducia, ma sappi che dovrai affrontare la loro rabbia”.
Il titolo del film scelto dal regista Les Miserables è un’invocazione all’opera di Hugo – citando “non ci sono piante cattive o uomini cattivi; ci sono solo cattivi coltivatori” – per rivendicare una necessaria riflessione sulla Francia di oggi. Ladj Ly, che nella banlieue è cresciuto (famiglia originaria del Mali), documenta una storia cui conferisce il ritmo di un thriller. Ladj Ly cattura ogni angolo del quartiere con autenticità espressiva, spostando i punti di vista, quello dei poliziotti, quello dei boss di quartiere, quello dei ragazzi. Scritto in collaborazione con Giordano Gederlini e Alexis Manenti, Les Misérable è stato paragonato a L’Odio (1995) di Mathieu Kassovitz premiato a Cannes per la Miglior Regia. Il lavoro di Ladj Ly – che a Cannes vince il Premio della Giuria – non ha la rabbia allucinata di quel film. La tensione messa in scena, complessa e brutale, descrive e traduce l’urgenza delle contraddizioni, la spirale di violenza che nasce da una rabbia che non è mai stata soppressa, ma trattenuta. Forse è solo in questo che si può azzardare un paragone con con Kassovitz. La rabbia dei giovanissimi che esplode potrebbe essere la figlia di quell’Odio.
Provocatorio e avvincente, lucido con un mdp mobilissima, un pugno nello stomaco nel finale, non nasconde nulla mentre dialoga con lo spettatore cui vuole far comprendere il bisogno della nuova generazione – un focolaio acceso che rischia di esplodere – di essere ascoltata.