L’acqua secondo il filosofo greco Talete è principio, forma e fine di tutte le cose e nel corso dei secoli questa essenza della natura è diventata un elemento con cui è possibile identificare infiniti concetti. L’acqua può essere la rinascita, la purificazione, la vita, la libertà. O una prigione. Proprio una prigione è quella in cui vive il giovane Guido Mancuso, protagonista de “L’Estate di Guido”, cortometraggio presentato all’Edera Film Festival 2024.
Un materassino su cui sdraiarsi pigramente e sonnecchiare, un cielo terso con il sole splendente di una tranquilla giornata estiva e una piscina privata in cui nuotare e trascorrere placidamente il tempo. È con queste immagini che ci viene presentato il personaggio di Guido Mancuso, un giovane benestante svogliato e incurante di ciò che gli accade attorno, dalle persone che tentano di parlare con lui alla telefonata di lavoro che deciderà di congedare sbrigativamente. In una sequenza di scene intervallate da riprese del cielo o della piscina, unico luogo in cui si svolgono tutte le azioni, vediamo il dipanarsi antologico di una giornata di Guido, una giornata che racchiude un po’ il senso di tutta la sua vita. La persona ricca e di successo che tutti credono lui sia non è altro che un personaggio che il ragazzo cerca disperatamente di interpretare finché non sarà costretto a tornare alla realtà e a percepire tutto il peso del suo patetismo. La maschera che indossa gli preclude (probabilmente in maniera più conscia di quello che potrebbe sembrare) la vista di quelle sbarre che, seppur dorate, in ogni modo lo intrappolano e lo costringono ad esercitare il suo “potere” nei confini di qualche metro quadrato di una piscina.
Guido è il rappresentante di uno strato della società di cui non è sempre facile notare il lato oscuro e nascosto, quello doloroso, perché la luce del successo è sempre estremamente luminosa, spesso accecante. È difficile quindi vedere la paura, il dispiacere e la vergogna di essere una persona di cui nessuno conosce il nome, di non esistere se non come appendice di qualcun altro, di non avere un volto.
L’opera cerca di mettere al centro dell’attenzione una situazione di disagio e di sviscerare una storia di ascesa e di caduta, sancita dalla metaforica scena finale, eppure non riesce fino in fondo nel suo intento a causa di un finale inappagante. La volontà di descrivere e dialogare sulle problematiche di una fetta della società risultano vane nel momento in cui è impossibile empatizzare con il suo esponente e anche i momenti in cui viene mostrata la sconfitta del personaggio vengono smorzati subito dopo da una chiusa che viene percepita dal pubblico come uno sgradevole lieto fine a favore di una persona che si è imparato a disprezzare. L’opera, dalle inquadrature che ammiccano alla Pop Art di David Hockney e dalla narrazione lineare senza però risultare noiosa, pecca della mancanza di un apice di sceneggiatura che avrebbe completato la promettente idea iniziale.