Seràgnoli fece il suo esordio come regista con Last summer, appena quattro anni fa, con esiti mediocri, si trattava infatti di un film essenziale che voleva a tutti i costi mostrarsi come impregnato di elaborazione cerebrale e sottesi allegorici, estremamente pretenzioso, ma almeno con una serie di belle idee dietro. A Locarno 71 lo stesso regista italiano presenta Likemeback in un clima abbastanza incerto per via delle tante strade che avrebbe potuto percorrere, per via del fatto che Last summer è la tipica opera prima acerba che però lascia intravedere del talento, e che di solito prelude o un grande balzo o a un tonfo altrettanto rumoroso.

Il tonfo – perché di tonfo si tratta – in questione Seràgnoli lo fa nell’acqua, la stessa acqua dell’arcipelago che fa da sfondo alla vicenda della tre protagoniste, Carla, Lavinia e Danila, tre diplomate che festeggiano la conseguita maturità con un viaggio in barca, accompagnate solo da uno skipper e dai rispettivi telefoni. Presto questi ultimi diventeranno il vero fulcro della vicenda, catalizzando l’attenzione dello spettatore e dei personaggi sul mondo dei social media, dove il trio condividerà tutti i momenti del viaggio.

Essenzialmente c’è poco da dire, è ragionevole ritenere che questo genere di manfrine su giovani ingenui che usano male i social network e finiscono per ledersi da soli abbia stufato anche i genitori più iperprotettivi, come è di enorme banalità il percorso di un’ora e più che porta all’avverarsi del fattaccio, che magari avrebbe potuto fungere da punto di partenza, più che da conclusione: ore e ore di footage di tre ochette che fanno casino e trovano divertente documentare con precisione ogni scemenza si possono ottenere, pensiamo, facendosi un giro in una discoteca qualunque. Ricreare lo stesso contesto in una gita in barca potendo contare su tre attrici di cui una sola si salva e una scrittura di una pochezza culturale seconda solo a quella del trio di personaggi è peggiorare il già terribile incipit.

Queste non sono le contraddizioni dei social media, è una ricostruzione di tanti (raccapriccianti, ovviamente) episodi già accaduti che si focalizza ripetutamente sulla loro pericolosità, pericolosità in quanto strumenti etc., che vanno usati in modo appropriato altrimenti aprono a un’altro mare di imprevedibili conseguenza. Questo è un concetto che ha capito qualunque bipede umanoide, quello che sfugge è la posizione del limite, casomai, ma da un regista così montato ci aspetteremmo una riflessione più vasta, sull’etica disposizionale, sul (vastissimo) lato commerciale e finanziario della faccenda, sulle nuove modalità con cui si arricchisce la società dello spettacolo o l’economia del marchio, ma niente. Meglio continuare a ripetere, nascosti dietro il nichilismo del discount e armati di saccenza buonsensaia, che i social sono solo strumenti, e non una diretta e normalissima conseguenza di un sistema molto più ampio, nemmeno troppo difficile da indagare (Herzog ha dato un’ampia occhiata risultata molto efficace) che fa capo alla tecnologia, a internet in quanto più grande metropoli mondiale, no a un paio di cellulari in mani smaltate.

Quattro anni fa Seràgnoli era stato il perfetto esempio di come il cinema (come tutte le arti) sia materia decisamente più complessa dell’aritmetica, non basta mettere assieme tante eccellenze per ottenere un buon risultato. In Last summer questi aveva messo su una sorta di task force composta da IgorT, Canonero, Willi e Decq che aveva dato vita a un minestrone male amalgamato, però, perché un regista deve svolgere un compito eminentemente creativo, non basta limitarsi a mettere assieme formule singolarmente efficaci; mentre qui inquadrature pruriginose, nudità gratuita, polemiche sterili e gauchismo stereotipato sono elementi che piacciono un po’ a tutti ma non basta affastellarli di fronte a una macchina da presa per fare un film. Anzi, qui forse si rivelano le vere capacità di Seràgnoli, che senza A-Team a supporto si rispecchia meravigliosamente in quel tragicomico (meglio: ridicolo) finale wanna-be-drammatico da soap opera. Qui può contare su Alva Noto al sonoro, un pezzo da novanta certo, ma se questo è quello che sai fare puoi pure avere Gesù Cristo agli effetti speciali, tanto lontano non puoi andare.

Inutile. Punto. Nient’altro da dire. Non è nemmeno così trash da poterci ridere sopra, finale a parte: “A’ pezzo demmerda” “I’m sorry, what? è il riassunto più veloce ed efficace per questo film. E già che ci siamo: levateje Moravia.