Alcune volte si rimane come impalati, davanti a uno spettacolo teatrale. Sorpresi di essere stati colti nel profondo dei propri ricordi, i più vividi e stagliati nella mente, che sono anche i più dolorosi. Però la restituzione scenica di quei ricordi personali provoca, oltre alla commozione, anche un senso di sollievo. Che va al di là del vissuto di ognuno, come se ci si rivedesse tutti insieme dentro una prospettiva intima e personale. Ma è molto difficile che questo accada. Be’, nella cornice unica che offre Primavera dei Teatri, uno dei festival teatrali più importanti nel panorama nazionale, questo è accaduto in un piccolo capolavoro: Album di Kepler 452, andato in scena al Circolo Cittadino di Castrovillari durante la XXIV edizione della rassegna.
Reduce dal grande successo del Capitale (Premio Ubu speciale 2023), questa volta la compagnia emiliana parla di memoria. Ma anche di perdita della memoria, dell’identità, dell’esistenza. In un ambiente non teatrale come quello del Circolo, gli spettatori sono accolti in poltrone e poltroncine, fino ad affollare il locale, pieno zeppo di oggetti di ogni tipo, disposti sapientemente in ogni intercapedine disponibile. La prima cosa che si nota sono alcuni monitor, anch’essi dislocati in più luoghi della stanza: saranno parte integrante e felice della drammaturgia. A un certo punto Nicola Borghesi, l’unico attore in scena, comincia a parlare delle anguille, che – tutte – nascono nel Mare dei Sargassi e per tutta la vita nutrono il desiderio di ritornarvi a morire. Inizio spiazzante, è una teoria come un’altra, magari nemmeno vera, ci dice.
“Ora, tu che non conoscevi questa storia, io spero che, d’ora in avanti, ogni volta che ti capiterà di ripensarci, o di risentirla da qualcun altro, ti ricorderai sempre che questa storia te l’ho raccontata io, oggi, qui. Io, per esempio, questa storia delle anguille, che è una storia che mi piace, una delle mie storie preferite, non mi ricordo dove l’ho sentita per la prima volta. Quando non ti ricordi qualcosa è terribile, perché non sappiamo come funziona la memoria. […] Dove vanno i ricordi? Svaniscono per sempre o se ne restano lì in qualche abisso, pronti per prendere il loro viaggio come un’anguilla che sente il richiamo del Mare dei Sargassi?”
La performance prevede la partecipazione del pubblico. L’attore gli rivolge una serie di domande per introdurre uno dei temi affrontati, la citata perdita della memoria e le patologie che comportano questa privazione terribile, la più nota e crudele delle quali è il morbo di Alzheimer. Così tra test psicologici e clinici e interrogativi gettati a bruciapelo si entra nel calvario dei malati, ce lo si immagina, più che altro. Tra centri curativi italiani e dell’est Europa viene sviscerato quello che Nicola definisce
“un percorso che va soltanto avanti e non torna mai indietro. Un percorso che si può forse rallentare, forse rendere meno doloroso, ma che non si arresta mai”.
Si capisce che dietro lo spettacolo c’è molta preparazione e competenza (la regia, oltre che da Nicola Borghesi, è firmata da Enrico Baraldi, mentre alla drammaturgia collabora anche Riccardo Tabilio), e che questo esito dolente e fortunato poggia su una vasta e accurata ricerca sul campo. Lo stesso titolo, Album, evoca immediatamente il contenitore dove si ripongono le foto del passato, magari senza avere il coraggio di riguardarle mai più, ma dilata la sfera semantica in direzioni molto più ampie e fortemente simboliche. Un altro aspetto determinante è la tenerezza di alcuni ricordi personali, che si inseriscono – come si diceva all’inizio – in una specie di coralità in cui ciascuno vede dipanarsi nella mente i propri.
Poi repentinamente il discorso vira sull’alluvione romagnola del 2023. Stivali di gomma, fango, acqua da tutte le parti. Incredulità, coraggio, voglia di aiutare, perfino momenti di allegria conviviale tra i soccorritori, qualche passo di danza. I Kepler si ritrovano immersi in quel disastro, e la domanda che si pongono è tutto fuorché banale:
“A cosa serve un artista durante una catastrofe?”
Un tema così distante dal precedente che sembra impossibile trovarvi un legame, un aggancio. Pare che sia stato inserito un po’ a casaccio. Invece no: il filo che collega tutto è il senso di ciò che è perduto per sempre. Che sia per colpa di un morbo cattivo o delle ondate impietose della piena. Macerie sui propri ricordi, macerie dappertutto, che disfano le vite come le cose.
Poi il finale agrodolce di questo lavoro poetico e potente:
“Pronto. Sì, salve, allora guardi io praticamente ho finito tutto. Ci sono due scatoloni, quelli se potete li portate da me, se li potete portare in cantina mi fate una cortesia. Invece tutto il resto delle cose le potete portare all’isola ecologica. Io farei così, vi portate via tutto, io vi lascio le chiavi e voi quando avete finito me le mettete nella buchetta della posta e poi le recupero dopo.
Va bene?
Grazie, arrivederci”.