Presentato tra i documentari della Semaine de la Critique di questo 70° Locarno Festival, Blood Amber è un reportage del documentarista Lee Yong Chao che indaga sulla vita e sulle condizioni di lavoro in una miniera di ambra in Birmania. Nonostante la specificità dell’argomento trattato, Blood Amber non è l’unico film proiettato in questi giorni durante la kermesse ad avere il mondo dell’estrazione mineraria come argomento principale: l’altra opera a raccontare gli stessi ambienti è il documentario di Ben Russell Good Luck, presentato invece nella sezione del concorso internazionale.
A differenza di Russell però, Lee Yong Chao sceglie di optare per un approccio più diretto e in un certo senso meno cinematografico, a favore di un racconto più dettagliato sia delle attività lavorative che soprattutto della vita di tutti i giorni dei minatori, costretti a trasferirsi a tempo pieno nelle remote aree montuose in cui sono collocate le cave. L’autore decide in particolare di seguire la giornata tipo di un ragazzo appena ventenne impiegato da circa 4 anni nella miniera, dal primo viaggio del giorno in uno stretto cunicolo alla doccia all’aperto con l’acqua di un pozzo, dalla pausa sigaretta a quella per il pranzo, passando per le lunghe camminate per andare da un polo della cava all’altro.
L’aspetto più curioso del documentario sta forse nel ruolo del prezioso minerale che compare nel titolo: a differenza del rame e dell’oro in Good Luck, qui l’ambra occupa una parte a dir poco limitata delle scene, apparendo solo nel fermo immagine finale. In questo modo il regista, come già si era intuito durante le interviste ai minatori, fa capire allo spettatore quanto sia difficile portare a casa una qualsiasi quantità di ambra anche dopo la più intensa delle giornate di lavoro.
In generale, lo spazio che viene dato alle attività lavorative in termini di screen time è assai inferiore a quello dedicato invece alle normali attività di tutti i giorni svolte però in condizioni estreme, e in questo modo Blood Amber si presenta più come un documentario sulla vita dei minatori che sulla vita nella miniera. Il film tuttavia manca di una certa inventiva, di quella ricerca continua di immagini suggestive e stranianti che caratterizzava invece Good Luck.
Sebbene un simile approccio possa essere voluto e indirizzato a conferire al film una certa dose di realismo, una simile scelta ha come effetto un’inevitabile lentezza, un senso di piatto e di ripetitività che non contribuisce certo a far scorrere velocemente i 100 minuti di durata. Il giudizio è certamente falsato, almeno in parte, dal confronto con un film allo stesso tempo simile nei contenuti e completamente diverso nell’approccio, ma una generale mancanza di fantasia resta la principale criticità di un documentario che, fatta eccezione per questo aspetto, si presenta come un prodotto ben confezionato.