La sezione della Histoire(s) du cinema del 70esimo Locarno Festival continua a regalare seconde proiezioni di un certo livello, questa volta è il turno dell’autore lituano Šarūnas Bartas, che per l’occasione viene insignito del Premio Raimondo Rezzonico Michel Merkt, con il suo ultimo film, Frost, presentato quest’anno a Cannes.

Rokas, giovane lituano che deve un favore a un amico, accetta assieme alla fidanzata Inga di guidare un convoglio di aiuti umanitari fino in Ucraina, nella regione del Donbass, lacerata dalla guerra con i separatisti.

Road movie che non è un road movie, l’ultimo film del cineasta lituano, che allo stesso modo non è nemmeno classificabile come un film di guerra. Non ci allontaniamo, invece, dal territorio usuale di Bartas, in quanto Frost è sempre un’opera sulla perdita, sullo svanire del senso. La Guerra del Donbass, ignorata dall’Europa ci viene portata in scena dal regista come un culminare di freddezza umana. Se non è raccontata, politicizzata, contestualizzata, allora non esiste, una nuova “guerra fredda” sostanzialmente. Freddi sono anche i nostri protagonisti, lo è il loro rapporto, così come lo è l’ambiente, dalla Lituania all’Ucraina ogni cosa è coperta di neve, quasi a proteggersi sotto una coltre di scarsa sensibilità. Rokas e Inga stanno assieme da un punto di vista spaziale, forse, non si amano, sono legati l’uno all’altra da ragioni biologico-meccaniche. Vanno in Ucraina definendosi volontari perdendo il senso della parola stessa, eppure a malapena sanno quello che stanno trasportando, o dove stanno andando.

Frost é un’opera che parla non tanto di solitudine quanto di isolamento, portando in scena la totale ignoranza, non culturale, ma sentimentale, per il male che si manifesta in piena vista. La Guerra del Donbass è coperta, mentre il cinema, l’immagine, o anche il mostrarsi della verità è bistrattato. Dal dialogo con i soldati di stanza sul fronte emerge come la questione non sia solo da intendersi dal punto di vista mediatico o sociale, ma anche emotiva: gli stessi soldati sembrano non sapere cosa stanno facendo in quel luogo, danno spiegazioni diverse e confuse, adducendo la metafore di “casa” e “famiglia” senza sapere come identificare nessuna delle cose, casa, famiglia, guerra o altro. Da parte del protagonista infatti c’è solo curiosità, non interesse. Il suo è un voyeurismo perde la caratteristica di morbosità per diventare fanciullesco. Rokas, nelle primissime battute del film, non appena accetta l’incarico, ha bisogno di andare a vedere su Youtube un video della Majdan in rivolta, come per accertarsene, e allo stesso modo, poco prima della fine, vuole salire su un avamposto per vedere i ribelli, riprendendo con il cellulare non per testimoniare ma per provare, con lo stesso atteggiamento con cui si filma una cosa incredibile per addurre una prova del suo essere.

Esattamente come la realtà dunque, anche l’immagine si fa video di uno smartphone, fatto per essere caricato su internet e ivi perdersi. I due protagonisti del viaggio – allegorie ambulanti – infatti si perdono continuamente, si separano senza accorgersene, e nemmeno si cercano, ritornano invece assieme muscolarmente, per abitudine. L’uno tradisce l’altra e viceversa in continuazione, lei carnalmente, lui dal punto di vista emotivo, ribaltando in questo modo i ruoli tradizionali, in un totale spaesamento.

Rokas nella notte d’incontro con gli altri volontari parla con la reporter interpretata da Vanessa Paradis di amore e di pienezza, vuole staccarsi dalla gelosia o dalla possessività perché li comprende come elementi ormai più fisiologici che altro. Il suo tradimento è nichilistico, perdendo la strada va alla ricerca di senso senza accettarne l’immensità e la vitalità, e lo cerca in azioni strumentali, non realizzando la pochezza di un video registrato o del fatto che sì, c’è davvero una guerra, ma lui non ne sapeva nulla. Rokas è la vera anima del film, in questo coincidente con lo spettatore che non sa dove guardare e si limita a inseguire i fantasmi della post-verità, del realismo, della sistematicità. Invece in Inga si ravvisa la figura del cinema, lei è la regia, si potrebbe dire. Senza farsi vedere indica quali scelte compiere a Rokas, lo guida pur in silenzio: mentre lui guida fisicamente il furgone lei lo riprende, e non a caso al cifra principale del registro tecnico di Bartas nel film è la soggettiva che converge con lo sguardo di lei. Come la regia,appunto, e quindi per metonimia il cinema, oramai si prostituisce, senza un preciso motivo. La stessa Inga proclama di non avere famiglia, né obiettivi, né affetti, e si concede al primo che capita, un attimo prima infantile e innocente, il momento successivo altrettanto intonsa ma provocante e misteriosa, facendosi silenzioso vanto di una complessità non sua.

In conclusione, Frost è un’opera ricercata, affine al cinema bartasiano più di quanto non dimostri al primo impatto e decisamente interessante, dipingendoci una guerra e un mezzo-cinema in un ritratto totalizzante e umano prima che sociale. Nel suo pluralismo formale, ovvero la diversificazione costante della tecnica di ripresa, pur quasi sempre a camera fissa, nell’uso attento della fotografia e in quello spiazzante del montaggio, metronomico e quasi assente alternativamente, e nella sua eccezionale e nuova verbalità, anch’essa formalistica, impregnata di scientismo e di scetticismo borghese e santommaseo (“se non vedo non credo” si evolve in “filmo, così credo”), ecco dove Frost ha i suoi punti di forza, sottolineando una nuova guerra fredda e una nuova morte dell’arte.