Il concorso internazionale del Locarno Festival 2017 inizia a giungere alle sue batture conclusive, presentando il terz’ultimo film: La telenovela errante di Raul Ruiz.
Il film è senza dubbio un unicum all’interno del concorso di quest’anno, essendo un progetto composito nato nel 1990 e conclusosi solo quest’anno dopo una lunga sospensione. L’opera, rimasta incompleta con la morte di Ruiz nel 2011, è stata ripresa dalla moglie Valeria Sarmiento, montatrice e regista, e completata per poter essere presentata qui nel Canton Ticino.
La telenovela errante si configura come una sorta di parodia malinconica della storia cilena post-Pinochet, essendo costruita come una soap opera all’interno della quale abitano quattro grandi fazioni audiovisive, che si agitano nella paura che possa scoppiare una guerra da un momento all’altro. La realtà cilena nel film è proprio una telenovela, e le sue piaghe e problematiche vanno in onda ogni sera sottoforma di scadente sceneggiato. Si divide in sette giorni, ognuno di durata variabile tra i 5′ e i 15′, con altrettante puntate a portarli in scena: tematiche di natura politica, economica e sociale vengono trasmesse da piccoli televisori da salotto non per famiglie sedute sul divano ma per i personaggi delle altre soap. Questa piccola eptalogia ci mostra una deriva tragicomica della situazione del Cile secondo gli occhi prima di Ruiz e poi di Sarmiento. Si parla di una realtà che non esiste veramente, che è solo un collage di soap, come se fosse talmente assurda da non poter essere reale, almeno per chi la vive.
Nei sette episodi non si risparmiano colpi, né alla destra né alla sinistra del paese e c’è un tale livello di varietà che talvolta ci si perde nei meandri del gioco meta-cinematografico per comprendere un riferimento solo qualche minuto dopo. Inoltre, pur essendo innegabile che il film non possa essere concepito nel suo pieno realizzarsi senza una diretta esperienza della storia cilena, buona parte dei rimandi e dei simbolismi sono concepibili senza una particolare e approfondita conoscenza della stessa, poiché si parla per situazioni generali e non di casi specifici. E lo stesso discorso vale per l’autore, nel senso che senza una buona conoscenza della filmografia di Ruiz non si risulta particolarmente sincronizzati. Dal canto suo Sarmiento svolge uno splendido lavoro nel completare l’opera, al punto da non far pesare troppo le differenze se non in alcuni punti.
In particolare quasi maniacale è la cura, all’interno di ciascuna sequenza, della parte che consiste materialmente nella telenovela. Si nota la potenza degli spezzoni a livello tecnico: realizzati volontariamente in modo sgangherato, barocco ma la contempo sciatto, con una fotografia ridicola e un’unica inquadratura che segue i personaggi nelle loro movenze melodrammatiche e patetiche, fanno sí che questa idea di uno Stato posticcio e ipocrita penetri fin nel profondo grazie al cinismo.
Il tono del film, appunto per questo, è quasi leggero, o quantomeno accompagna bene senza diventare stucchevole la parte critica e di denuncia con quella piú comica. Comicità tragica, beninteso. Quest’ultima si esplica nei personaggi delle soap ma quando ne sono fuori, ovvero quando si comportano quando non devono andare in scena, sembrando preoccupantemente sinceri, a tratti.
Questo Cile che da Stato sovrano si fa televisione divide i propri nuclei di pensiero frammentandosi in quattro clan che si temono l’un l’altro e per evitare di subire un’offensiva la preparano. Attraverso la consueta serie di simbolismi Ruiz e Sarmiento colpiscono le istituzioni ridicolizzandole con uno degli stereotipi più uniformemente negativi della storia dell’intrattenimento, senza la pesantezza di un riferimento politico specifico o di una critica sistematica, ma con la sapiente gestione dell’elemento meta-cinematografico, dando vita a dei fantocci estremamente corporei ma confinati in uno schermo da 12 pollici e usando le luci, i dialoghi per metterne in risalto l’artificiosità.
Lo stile eccentrico e la scorrevolezza del film non impediscono di notarne la complessità. Ogni linea, ogni battuta viene portata alla rispettiva iperbole ma con questo non fa perdere il senso totalizzante dell’opera, perché sotto la superficie i vari spezzoni iniziano a mescolarsi e fondersi tra loro. A partire da metà del film la cosa si rende palese e lo scambio finzione finta/finzione reale si fa piú intenso, al punto che arrivano risposte prima delle domande, come nel dialogo a distanza tra lo speaker e il narcolettico al ristorante, tanto per citarne un esempio.
In conclusione, La telenovela errante non è sicuramente un’opera semplice, ma nella sua arzigogolata struttura rivela un critica profonda e globale a un Cile così ridicolo che, propria come una telenovela, nel finale (il Day 7, dove tutto collima) ha bisogno di avviare un processo di continuazione del conflitto, di non finire, di ricominciare ciclicamente da capo per continuare nemmeno a prosperare, a sopravvivere. Come si fa a non rispondere con un sorriso amaro a una rappresentazione di un Cile che per continuare a esistere ha bisogno di andare avanti come fosse una storica soap opera del primo pomeriggio?