Quinto titolo presentato nella sezione Cineasti del Presente, Milla è il secondo lungometraggio della cineasta franco-romena Valérie Massadian, già vincitrice del Pardo per la Miglior Opera Prima con il suo Nana (2011) che torna a Locarno con un altro ritratto femminile – nel quale interpreta anche un piccolo ruolo.

La diciassettenne MillaSeverine Jonckeere – e il suo ragazzo LeoLuc Chessel – vivono alla giornata nei pressi di una città in riva alla Manica. Imbattutisi in una casa abbandonata, decidono di farne la loro dimora e Luc prende servizio su un peschereccio per garantirsi un minimo di stabilità. La vita dei due trascorre serena, fino a quando Luc non perde la vita in mare lasciando la compagna sola e incinta, ma nonostante tutto la voglia di vivere avrà la meglio.

Non si tratta di una sinossi ridotta all’osso: Milla non vuole raccontare ma analizzare – con precisione chirurgica e quasi morbosa – la vita di coppia, dando rilievo a quegli episodi triviali – uno screzio, un gioco infantile – che ne costituiscono l’essenza e scandiscono i tre tempi della pellicola – e forse anche della vita di tutte le donne, sembra il sottotesto: la convivenza, la dolce attesa in solitudine, la maternità rischiarata dal figlio appena nato, cui filo rosso è il brano Add It Up delle Violent Femmes – che verrà eseguito per intero in una sequenza fuori del tempo diegetico da due personaggi apparsi di sfuggita in precedenza, sfidando la pazienza dello spettatore. Per contro gli eventi cardine, quelli che normalmente permettono di determinare la consecutio, sono estromessi: la morte di Luc è dedotta dallo zaino lasciato a Milla da un collega di lavoro, la gravidanza dal ventre gonfio a seguito di uno stacco. La Massadian gioca così con la nostra percezione del tempo, lo dilata all’inverosimile producendo uno straniamento amplificato dall’uso esclusivo della camera fissa che rende il film arduo da seguire fino in fondo.

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Milla e suo figlio

Sin dalle prime inquadrature – in cui la regista ostenta il suo gusto per la composizione dell’immagine – Milla si connota essenzialmente come non narrativo: è chiara l’intenzione di fare del vuoto il protagonista, lasciando all’eloquenza del silenzio il compito di svelare la psicologia del personaggio principale, un essere umano straordinario nella sua mediocrità. Ma l’unica impressione che si ha a conclusione dei 128 minuti di durata – che si sentono tutti – è di pedantesco intellettualismo: Massadian ci mette dinanzi al classico film che “va capito”, che vorrebbe sovvertire il mezzo facendo dei tempi morti il proprio metro di profondità, ribadita anche dal monologo – insostenibile – di Luc Chessel che guarda in macchina e dalla poesia recitata in voce fuori campo a seguito della morte del personaggio. Ma il vuoto finisce per inglobare tutto il resto. Il film – se può rientrare in questa definizione – non vuole mostrare una condizione individuale o umana, né ritrarre la realtà come se la cinepresa non interferisse, non beneficia nemmeno dell’attenuante del più banale intento descrittivo.

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Un fotogramma dal monologo

A confronto con altre opere che di recente si sono allontanate dalla narratività tradizionale, sfruttando con più cognizione di causa espedienti registici non dissimili ma con una chiara esigenza espressiva – basti pensare alla pellicola vincitrice dell’ultima edizione della kermesse veneziana – , Milla sembra un malriuscito tentativo di cavalcare l’onda dell’apprezzamento di un certo cinema contemplativo.