Sesto film presentato in concorso al 70esimo Festival di Locarno, Wajib è l’ottavo film della regista palestinese Annemarie Jacir, interessata, come sempre, alla questione del conflitto israelo-palestinese; lo è lo stesso film, pur non essendo imperniato su di essa.
Abu Shadi, padre di famiglia lasciato dalla moglie che dopo di lei ha visto abbandonarlo anche dal figlio Shadi, ora architetto di successo a Roma, deve fronteggiare adesso anche il fatto che la figlia sta lasciando la casa familiare in quanto promessa sposa. La tradizione palestinese prevede di consegnare gli inviti personalmente andando casa per casa. Così padre e figlio, quasi estranei oramai, si ritrovano per fare le quasi quattrocento consegne.
Il film, come prima accennato, ragiona in primo luogo sulla coppia di protagonisti, un padre e un figlio che non si conoscono più e conservano ricordi falsati l’uno dell’altro. Sono uniti solo dall’amore comune per la sorella ma separati da ogni altra cosa, come il rapporto con la moglie (o madre) o la visione della Palestina, o ancora le tradizioni. Il conflitto viene portato in scena con la semplice struttura della successione delle consegne degli inviti, tra la copertura di un breve tragitto e il consueto invito a fermarsi per bere qualcosa da parte degli invitati. Abu Shadi e Shadi parlano, si confrontano, anche animatamente; ma non è solo un conflitto familiare, ha una componente generazionale da non sottovalutare, tra un padre che ha preferito piegarsi e un figlio che, come la madre spezzata, se n’è andato. Abu Shadi è un vecchio professore in pensione che conosce un po’ tutti e ha fatto dell’arrabattarsi uno stile di vita, Shadi è il classico giovane idealista che però come il futuro suocero all’idealismo si limita, fuggendo di fatto dalla realtà in più di un modo.
Attraverso semplici espedienti sia di ripresa che di gestione dei tempi Jacir riesce a revitalizzare il genere della dramacomedy familiare, nera ma che non risparmia umorismo cinico, quello che è tutto frutto di una buona direzione degli attori. Gestendo alla perfezione, quasi dosandole, le varie anime dell’opera, la regista ottiene un effetto equilibrato, riuscendo a intrattenere raccontando una storia quasi tragica con leggerezza. Inoltre, facendo leva sulle informazioni e nozioni emergono dai dialoghi trai due protagonisti, costruisce con facilità una mitologia familiare che più il film va avanti più inizia a permeare l’atmosfera. In questo modo si ricreano i personaggi invisibili, come la madre assente perché il secondo marito sta morendo, che evocano ricordi e le più grandi differenze ideologiche; o ancora risulta importantissima la figura del censore filo-israelita Ronnie, che si fa linea divisoria fra i due: Abu Shadi vuole invitare al matrimonio questo personaggio creato solo dai ricordi dei protagonisti per ottenere una promozione allo scopo di prendersi cura della figlia al meglio, mentre il figlio si scaglia contro di lui in quanto corpo governativo senza però sapere di cosa parla realmente, sfuggendo alle regole non-scritte ormai consolidate.
In conclusione, Wajib è un film semplice, onesto che non va al di là delle proprie possibilità e nemmeno vuole farlo, introducendosi in un modello affermato con un film che trae molto da esso, configurandosi come una delle poche innovazioni possibili all’interno della tipologia. Non si imprime nella memoria, ma risulta molto piacevole e prende senza difficoltà a livello empatico.