Si è conclusa con L’orto americano di Pupi Avati l’ottantunesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, selezionato come film di chiusura. Una conclusione affidata a un maestro del cinema italiano – il maestro del gotico padano – e a un giallo in bianco e nero dalle atmosfere sospese e misteriose, che si muove tanto tra gli echi e i fantasmi della storia che racconta tanto tra quelli dello stesso cinema di Avati.

Tratto dall’omonimo romanzo firmato dal regista bolognese, L’orto americano si svolge nel secondo dopoguerra e ha per protagonista un giovane scrittore, interpretato da Filippo Scotti, che si innamora istantaneamente e perdutamente di un’infermiera dell’esercito americano, Barbara (Mildred Gustaffson). Un anno dopo, il giovane si trasferisce nel Midwest americano e, per puro caso, si ritrova ad abitare nella casa accanto a quella della madre di Barbara (Rita Tushingham, già protagonista di Il nascondiglio), dalla quale apprende che la bella soldatessa è misteriosamente scomparsa, forse morta. Per il ragazzo è l’inizio di una ricerca disperata che lo porta di nuovo in Italia e all’incontro con un killer seriale che potrebbe essere il responsabile della morte di Barbara.

Pupi Avati si muove tra i luoghi fisici e stilistici del suo cinema e di quel gotico padano di cui è stato inventore in un film arcano e sovrannaturale, tra le pieghe di un mistero da risolvere e un amore da (ri)trovare, in un’atmosfera romantica, decadente e oscura che rimanda a film come Il signor Diavolo e il cult La casa dalle finestre che ridono (con una citazione piuttosto esplicita sul finale). Se ci si sofferma sulla trama e su un intreccio a volte sfilacciato e a tratti inconsistente, emergono alcune debolezze e ingenuità di un film che pare poco centrato.

Ma se ci si lascia trasportare dalle atmosfere e da un film che concentra l’essenza del cinema di Avati, si entra volentieri nelle pieghe e nel cuore di un racconto che appare come un commovente canto del cigno, ancorato al passato e sospeso tra reale e onirico. Ottima la scelta di casting di Filippo Scotti, interprete perfetto delle fragilità e delle inquietudini del suo personaggio, tormentato da un amore romantico e consolato e sorretto dal rapporto coi fantasmi del proprio passato.

Meglio quindi abbandonarsi atmosfere rarefatte di un noir che richiama il cinema di Hitchcock e le cui immagini parlano anche quando non mostrano e lasciano solo intuire una minaccia nascosta, piuttosto che soffermarsi sul comprendere lo sviluppo di una storia che traballa in più punti, che prende avvio in modo promettente e che invece si affossa e quasi sgretola nell’atto finale. Meglio godere delle suggestioni veicolate anche attraverso il comparto sonoro, calzante contrappunto alle immagini, e apprezzare quello che è un tributo di Avati ai classici di genere anni Quaranta e al suo stesso passato.