Rappresentante del Giappone per il Concorso di questa edizione, Love Life di Fukada Kōji è un elegante quanto derivativo dramma da camera che poco fa per elevarsi al di sopra della media dei lungometraggi strappalacrime tanto di moda nel suo mercato di riferimento, pur senza pervenire a esiti così marcatamente stucchevoli e mantenendo una sua coerenza stilistica d’insieme.
A causa di uno sfortunato incidente domestico, Taeko – Kimura Fumino, vista qualche anno fa in un ruolo preminente nell’opinabile The Scythian Lamb (2017) – ha perduto il figlio di primo letto ed è sprofondata in una depressione che Jirō – Nagayama Kento, in questi giorni nelle sale del Sol Levante con Fuyu Sōbi (2022) al fianco di Itō Kentarō –, il suo attuale marito, non sembra comprendere. A complicare le cose, in occasione dei funerali del piccolo il suo ex – Sunada Atom – farà inaspettatamente capolino, portandola a rivalutare la natura del suo rapporto con Jirō e le sue priorità nella vita.
Nonostante i riconoscimenti e la presenza costante ai maggiori festival internazionali – principalmente asiatici, tra cui vale la pena citare sicuramente quello di Pusan e la sua neonata sezione dedicata ai giovani registici nipponici –, non è un mistero che il cinema giapponese sia in crisi, complice uno star system dove le nuove leve sono incoraggiate a intraprendere la carriera televisiva e poca volontà di scommettere su autori “scomodi”, per quanto universalmente apprezzati – Sono Sion in primis.
Al contrario, il panorama sudcoreano sembra godere di ottima salute e popolarità, ragion per cui diversi cineasti hanno deciso di attingere al repertorio del confinante al di sotto del 38esimo parallelo, a volte spinti da reali esigenze espressive e di rielaborazione testuale – come nel caso dell’ultima fatica di Hamaguchi incoronata dall’Academy e dalla giuria di Cannes Drive My Car (2021), dove la fedeltà al racconto originale di Murakami Haruki si sposa con i mutati equilibri di egemonia culturale del nostro presente, ben intercettati dal regista –, a volte, parrebbe, più per una malriposta fiducia nel potere taumaturgico a priori della rappresentazione sul grande schermo della Corea e dei suoi volti celebri – come in Broker (20220) di Kore’eda, un film che forse non avrebbe ottenuto la stessa risonanza se fosse stato girato in patria, tanto più se si considera l’autoreferenzialità della vicenda narrata, che poco aggiunge alla filmografia dell’autore.
In tal senso, non sarebbe scorretto affermare che Fukada si collochi nella seconda categoria, non solo in quanto imitatore di suddetta tendenza generale a guardare con ammirazione al cinema della vicina penisola ma, anche, in quanto imitatore “di secondo grado”, riprendendo i tropi di quei connazionali che già avevano pensato bene di salire sul carro dei vincitori: l’ex marito di Taeko, tale Park, è infatti un immigrato coreano e parla la lingua dei segni – quasi un calco al maschile del personaggio interpretato da Park Yu-rim in Drive My Car –, senza contare l’ultimo quarto del film, pretestuosamente ambientato nei pressi di Pusan, dove il figlio di Park, avuto dalla prima moglie, sta celebrando il matrimonio – rievocando quindi il setting e il discorso sulla problematica definizione di famiglia che costituisce il fulcro dell’ultima pellicola di Kore’eda.
Ispirato all’omonima canzone di Yano Akiko, ricorrente nella colonna sonora del film e il cui testo a un certo punto recita “Qualsiasi sia la distanza tra noi, nulla può impedirmi di amarti”, Love Life ritrova comunque un principio di unità – se non di originalità – nello strutturarsi come un film sulla distanza e sull’impossibilità di comunicare.
La macchina da presa pudica, che non si avvicina mai agli interpreti isolandoli dal contesto, ma insiste anzi a inquadrarli in coppia e a mezzo busto nel quadro dei loro angusti appartamenti, evidenziando l’impercettibile eppure sempre presente iato tra i corpi, costituisce un livello di interpretazione di uguale intensità ma flusso contrario rispetto ai dialoghi, dove le frasi di circostanza e le parole di (apparente) comprensione in realtà non sottendono alcuna intenzione di colmare il divario – emotivo, ma anche di classe e di genere, come si intuisce dall’atteggiamento del padre di Jirō nei confronti della divorziata Taeko, e che poi lo stesso Jirō finirà per riservarle col suo atteggiamento diffidente – tra individui che, almeno sulla carta, dovrebbero essere uniti dal legame di sangue – e dal conseguente dolore – più forte che ci sia.
Riprendendo il tema – già esplorato nel fortunato Harmonium (2016) insignito del Premio della Giuria Un Certain Regard a Cannes69 – dell’incapacità degli individui di superare un trauma quando questo sia condiviso all’interno di un nucleo familiare, Fukada tratteggia con arguzia due coppie parallele che incarnano due diversi modi di processare il lutto: da un lato, la comunicazione non verbale – e quindi limitata nella sua fruibilità – e sincera tra Taeko e Park, che interagiscono nella lingua dei segni; dall’altro, la comunicazione verbale – e quindi in apparenza più veritiera, perché immediatamente comprensibile alla maggioranza degli interlocutori – e disseminata di ambiguità tra Jirō e la sua ex, la quale, rivedendolo a distanza di anni all’insaputa della moglie, lo rimprovererà di non riuscire a guardarla negli occhi nemmeno quando parla dei suoi veri sentimenti o del figlio defunto.
Ciò detto, le pur valide attenuanti di messinscena e sceneggiatura che si possono ascrivere a Fukada non bastano a dare a Love Life la sostanza necessaria per essere un film degno della sezione competitiva più prestigiosa del festival, o quantomeno in grado di riprendere un topos nazionale – quello della morte dell’infante come scaturigine per la messa in discussione delle istituzioni, caro al J-horror quanto al cinema classico giapponese – con cognizione di causa. Tutto sommato, dimenticabile.