L’ultima Traviata di Franco Zeffirelli

S’è fatto un gran parlare della Traviata di Franco Zeffirelli per l’Arena di Verona, unica nuova produzione del 98° Opera Festival. Arrivati in ritardo per unirci alla trenodia collettiva che ha accompagnato la scomparsa del regista fiorentino nei mesi scorsi, assistiamo a questa replica con il giusto distacco emotivo.

E’ evidente la mancanza di una regia o almeno di un efficace passaggio di indicazioni tra il maestro e il collaboratore. Vero è che Traviata è dramma da camera relativamente corale, ma qui manca quella peculiare cura delle masse, vera ossessione del regista in Aida, Turandot, Trovatore e Carmen. I personaggi non sono approfonditi, ma abbandonati a una gestualità poco convincente e in disarmonia con il cantato. L’unica idea è la sterile aggiunta iniziale delle esequie con tanto di campana e un prete che benedice il feretro, circostanza in cui un Requiem sarebbe stato più consono di un Nomine Patris. Peccato che cominciasse dalla fine anche la Carmen di De Ana, titolo inaugurale dell’Opera Festival 2018.

Una casa di bambola

L’impronta di Zeffirelli rimane solo nella mastodontica scenografia che strappa applausi e mozza il fiato. Se per il regista Traviata è “regina del Melodramma”, è logico che la scena sia incorniciata ai lati da due ordini di palchi. La dimora di Violetta è una casa di bambola a due piani, invero sproporzionata. Sopra, la zona notte dalle tappezzerie azzurre, colore che rimanda al cielo del Paradiso e dell’estasi erotica. Sotto, il salone delle feste in bianco e oro. Nel secondo atto un telero su cui campeggia un giardino d’inverno ci ricorda il nido d’amore campestre, mentre la casa di Flora è un’ampia sala con gradinate che riprende una soluzione simile a quella per il secondo atto del Don Giovanni. Nella festa da Bervoix, applauditissima, un drappello di maschere colorate invade lo spazio e le coreografie di Giuseppe Picone ravvivano la nostra attenzione grazie alla prima ballerina Eleana Andreoudi. Nel terzo atto, non potendo sfruttare ovviamente il letto al piano di sopra poiché i cantanti non si sentirebbero, viene messo un giaciglio al pianoterra. Peccato che la misera muoia in povertà assoluta, mentre qui l’arredo rimane intatto.

I costumi di Maurizio Millenotti, ricchi nelle fogge e nei colori, si inseriscono bene nell’affresco del demi-monde ottocentesco parigino, rievocando le suggestioni della pittura di De Nittis, di Manet e Caillebotte.

Il cast

Daniel Oren, che il 29 agosto 2019 ha festeggiato la sua cinquecentesima presenza in Arena, offre una lettura discontinua. I momenti collettivi si inabissano in una frenesia eccessiva che stride con i tempi piuttosto allentati dei duetti, soprattutto quello Violetta-Germont dove Oren pare provare un sadico piacere nel prolungare lo strazio della misera. Ci sarà certo una buona dose di romanticismo e verosimile umanità in queste lunghe parentesi, ma anche tanta noia.

Lana Kos, già interprete di Violetta in festival passati, si trova più a suo agio dopo il primo atto, quando la cifra drammatica aumenta. Sceglie un fraseggio consono e un’incisiva espressività per sopperire alla mancanza di indicazioni registiche convincenti. Il Germont di Amartuvshin Enkhbat è corretto, possente nel timbro stentoreo, ma capace anche di colori sofferti e decisi. Stephen Costello è Alfredo insipido, emendabile nella dizione e nell’emissione sovente nasale e forzata.

Clarissa Leonardi è Flora imperiosa, mentre da Marcello Nardis avremmo desiderato un Gastone meno scostante. Douphol accattivante quello di Nicolò Ceriani. Completano il cast Dario Giorgelè come Obigny, Alessandro Spina come Grenvil e Stefano Rinaldi Miliani come domestico e commissionario. Due grandi del passato nei ruoli di Annina e Giuseppe, Daniela Mazzucato e Max René Cosotti.

Ben preparato il Coro diretto da Vito Lombardi.

Consensi positivi per tutti alla recita del 30 agosto da parte del pubblico così entusiasta da applaudire incontinente al termine di ogni aria, recitativo o tempo di mezzo. Ultima replica il 5 settembre.

Luca Benvenuti