Sarajevo dei nostri giorni. Città in buona parte ricostruita, ma le anime e le ferite di chi trent’anni fa ha subito le violenze della guerra non si sono ancora cicatrizzate: è il caso di Asja, che si ritrova costretta a una sorta di resa dei conti nel posto più inaspettato e frivolo: un albergo in cui ha luogo un evento di speed dating.
La macedone Teona Mitevska, spesso in collaborazione con la sorella attrice e co-produttrice Labina, ci ha abituato a storie coraggiose e dalla forte impronta femminile, se non proprio specificamente femminista. Del resto la sua posizione impegnata ben si collega ad alcuni dei nomi cui dice di ispirarsi: Kira Muratova, Maya Deren o Claire Denis. Da anni habitué dei festival (Rotterdam, Berlino fra i palcoscenici dove i suoi film hanno avuto la loro prima mondiale), aveva convinto non poco anche con il suo precedente Dio esiste, il suo nome è Petrunja. In questo suo ultimo L’uomo più felice del mondo mette di nuovo in primo piano una donna in difficoltà, ma questa volta si sposta leggermente dalla sua Skopje per risalire verso uno dei centri nevralgici della matassa balcanica, quella Sarajevo martoriata dalla guerra e dalle sue lunghe conseguenze e profonde ricadute psicologiche.
Tecnicamente “in trasferta”, la Mitevska si trova comunque a suo agio nell’ambientare nella odierna capitale bosniaca una storia di resa dei conti che ha inevitabilmente molto in comune con mille altre vicende drammatiche e traumatiche collocabili alle varie latitudini balcaniche: durante il tremendo, infinito assedio di Sarajevo da parte dei nazionalisti serbi, la protagonista Asja era stata colpita, giovanissima, dal proiettile di uno dei famigerati cecchini pronti a devastare la popolazione inerme. Come mille altre vittime di quel conflitto, la donna, ora quarantenne, cerca di venire a patti con la realtà e di rifarsi una vita, forse con quel ritardo inevitabile che il trauma ha causato, rendendo innaturale e anormale la successiva esistenza di chi ha vissuto una guerra letteralmente sulla propria pelle: per questo non ha ancora incontrato l’amore? È uno dei fattori che la sceneggiatura lascia parzialmente nascosti, ben giocando con un set di informazioni iniziali molto risicato.
Ad uno dei tanti ormai ben noti eventi di appuntamenti rapidi e casuali, uno “speed dating” con degli estranei della più varia estrazione, Asja si ritrova a sedere (forse non per caso…) con un quasi coetaneo dai tratti legnosi e arcigni, misterioso e chiusissimo anzi che no dentro un suo mondo impenetrabile, il quale dunque sembrerebbe essere tutt’altro che un partner ideale per un evento così frivolo e promettente come quello in programma.
La Mitevska parte benissimo, utilizzando al meglio alcuni topoi del genere: una commistione casuale di caratteri ed età all’interno di uno spazio chiuso (è da Stagecoach che questa situazione promette scintille, e qui le mantiene), l’utilizzo di una situazione alternativa e misteriosa per definizione (il dating, che di per sé sottintende un rischio calcolato di sottoporsi a pericoli e sorprese spiacevoli), e poi, ovviamente, le differenze etniche e religiose, elemento indispensabile in quel di Sarajevo e dintorni, e qui ben utilizzato come una delle possibili molle per un conflitto. Conflitto che puntualmente scoppia, ad onde concentriche e con intensità crescente, quando si scopre che qualcosa di intimo e incancellabile unisce Asja e il suo compagno di tavolo Zoran (eviteremo qui gli spoiler). Qualcosa che va ben oltre l’aspetto ludico e godereccio dell’appuntamento al buio: Asja e Zoran vengono messi dalla Mitevska nel bel mezzo di un appuntamento con i conti della Storia, che sembrano dover riemergere, nel bene e nel male, anche quando oramai la vita è diventata altro, si è (solo apparentemente) normalizzata.
Amore e odio, perdono e irreversibilità della colpa, volontà di morte e desiderio di resurrezione: tutti questi opposti vengono fatti danzare (letteralmente) nella sala da ballo dell’albergo di periferia che la regista utilizza mirabilmente sfruttando tutte le unità aristoteliche. La Mitevska conferma sensibilità e talento di scrittura (a quattro mani con Emma Tataragic), interrogando noi e i suoi personaggi su quali siano i reali meccanismi di uno scontro antropologico che diventa conflitto, guerra, genocidio: le differenze religiose, politiche, sociali? Oppure l’incapacità di rispondere all’altro che ti siede di fronte, con tutto il grumo a volte insopportabile di incomprensibilità e lontananza culturale che egli rappresenta?