Se c’è un genere in cui la scrittura si fa raffinato telaio di azzardi molteplici, pagando ogni distrazione o sfasatura d’ordito a caro prezzo agli occhi del lettore, è senz’altro il giallo; con il corollario che i migliori giallisti, contrariamente a un’opinione purtroppo diffusa, collocano la propria arte ai piani alti dell’officina letteraria, soprattutto per la reiterata scommessa di combinare qualità del dettaglio e visione d’insieme, densità di narrazione e coerenza d’intreccio, inseguendo la bussola centrale che connota il genere: quella di “sorprendere” il lettore con continuità, senza lasciargli il tempo di smontare mentalmente il giocattolo, sia sul breve che sul lungo.
In tal senso, il nuovo libro di Alessandro Robecchi Torto marcio (Sellerio, 2017), offre un buon esempio di come in un prodotto noir si possa fare dell’eccellente letteratura; mettendo subito in chiaro, fin dalle prime righe dell’incipit, che l’operazione non si limita all’accurato riempimento testuale delle sezioni di una storyboard preventiva, come si legge e si annusa spesso in molte prove congeneri, deposte negli scaffali delle librerie a salutare un mercato apparentemente ancora florido. Ma ecco, per l’appunto, l’incipit del libro:
Forse avrebbe dovuto piovere. Francesco lo ha pensato vestendosi, che una giornata così si meritava una luce più adatta, qualcosa che un bravo regista avrebbe studiato a lungo e poi realizzato con cura aspettando il giorno giusto: il cielo grigio, le gocce sottili, l’umidità a mezz’aria che c’è a Milano quando non sai se l’acqua viene da sopra la testa o da sotto i piedi. Invece c’è un sole pallido, di quelli che non scaldano, un sole che fa il minimo sindacale, la sensazione di quelle lampadine ecologiche che stentano a dare potenza appena schiacci l’interruttore, e fanno la luce dei morti.
Risalta subito, qui, una delle caratteristiche del romanzo: la precisione squisitamente letteraria che incrocia, nelle descrizioni d’ambiente, dettagli concreti e interiorizzazioni dei personaggi, non tanto attraverso coloriture o metafore esterne, ma ricorrendo ad allegorie comparative più dirette e infiltranti (qui ad esempio, in un unico paragrafo, quelle del regista e le lampadine).
Ci pare che la “tenuta” del romanzo, prima che nell’assestamento efficace, sul lungo, delle concatenazioni di un intreccio articolatissimo, sia proprio nel rinnovarsi pagina dopo pagina, sul breve, di una vitale precisione stilistica che afferra azione e protagonisti, partendo dal dettaglio; è proprio da qui, smantellando abusati cliché di genere, che Robecchi costruisce la plastica realtà dei suoi personaggi, in una storia che attraversa Milano e i suoi contrasti rovesciandoli sulla pagina con esattezza e ironia implacabili, fra lusso estremo e disagio, illusione di ricchezza ed emarginazione spietata.
Il noir, come nella tradizione dei più grandi, diventa privilegiato strumento endoscopico di lettura di un mondo, qui applicato a un corpo sociale malato e alla sua dissociazione in grumi ed isole di umanità varie, diversamente disperate, chiamate ad attrarsi e respingersi come molecole impazzite, prive di ogni orientamento aggiuntivo che non sia, alla fine dei conti e della trama, la nuda urgenza di sopravvivere.