Presentato a Venezia fuori concorso, esattamente come il suo regista Mr. Oizo, al secolo Quentin Dupieux, fuori luogo ovunque lo si voglia collocare e impossibile da ascrivere a qualsiasi tradizione, il film Mandibules è una commedia rigorosamente demenziale difficile da catalogare anche nella stessa filmografia del non-autore francese. Se nel 2015 con Réalité, pellicola assai più complessa delle precedenti sul piano dell’architettura strutturale, questi aveva marcato una decisa virata nel suo modo di fare cinema, abbandonando una parte di nonsense per consentirsi una regia più canonica e variegata nonché maggiore spazio per la narrazione e i dialoghi – poi proseguita e radicalizzata con Le daim – grazie a Mandibules riesce a ricordarci che sbagliamo noi a volerlo inquadrare con espressioni inopportune quali “passo avanti” o “passo indietro”.
Mandibules scarta di lato, unendo la comicità paradossale dei primi film del decennio scorso con la possibilità di articolare un’opera che possa essere definita dalla sua storia, dal suo intreccio, come nei casi più recenti; insieme proprio a Le daim, si tratta del primo film di Dupieux del quale forse può essere improvvisata una sinossi a beneficio di un eventuale curioso che volesse sapere en passant “di cosa parla il film?”. Se quello stesso curioso ci facesse la stessa domanda facendo riferimento a Rubber o Wrong, ad esempio, inutile dire che ci prenderebbe per fessi vedendoci gesticolare o associare pneumatici senzienti a catabasi urbane.
Al curioso di cui sopra basterebbe parlare di due strani amici, poveri, senza casa, lavoro e futuro come Manu e Jean-Gab che mentre cercano di raccattare qualche soldo trovano per caso una mosca gigante in un bagagliaio: la bizzarra scoperta li porterà a voler addestrare il colossale insetto per non dover mai più preoccuparsi del denaro per mangiare, trovandosi poi ospitati in una casa di villeggiatura di sconosciuti che li hanno scambiati per amici d’infanzia. Mandibules è la tipica commedia di Dupieux, folle e stravagante, indirizzata su un apparentemente monotono rettilineo in diretta prosecuzione del film precedente, con il passaggio di consegne reso attraverso la doppia citazione a Pulp fiction (il montaggio dell’assistente e la sottotrama della valigetta). Come una sorta di Scemo & più scemo ma con una dignità cinematografica, il nostro trasporta la sua bizzarra coppia protagonista in una serie di situazioni surreali che presto diventano problemi da risolvere, cosa che Manu e Jean-Gab riescono a fare con colpi di genio (eufemismo), colpi di fortuna (altro eufemismo) e un raziocinio così parossistico che nel contesto in cui è calato diventa un’arma.
Mandibules è un film ridanciano, divertito prima che divertente e senza significato particolare per sua stessa ammissione, non pretende nulla se non far ridere e giocare con la sua invettiva, la sua verve spontanea e genuinamente arzigogolata. Il duo vede continuamente frustrate le proprie possibilità di poter addestrare la mosca e portare a compimento il piano, ma nei limiti il loro modo di stare al mondo rivela nuove facce, sprigionando efficaci scuse e contromosse spietate considerando che quasi tutti i personaggi del film li deridono come “ritardati”. A questo caos organizzato si uniscono due elementi fondamentali che fanno da supporto all’architrave del film. Il primo è un sincero estro popolare che esalta gli ultimi e gli sconfitti con l’esuberanza antiborghese delle commedie di cinquant’anni fa, mentre il secondo è la performance dissonante (e assordante) di Adèle Exarchopoulos, alle prese con una disabilità inedita – il suo cervello non capisce il concetto di volume e lei è costretta a urlare sempre – che alla fine le costerà la libertà in un pre-finale che sarebbe cinico se non fossimo un film di Dupieux, o meglio, in un film del “secondo” Dupieux, per cui la componente riflessiva sulla mortalità e l’affanno di Wrong lasciano il posto a un lieto fine velato di malinconia che non può non strappare un sorriso anche e chi non sopporta tale umorismo.

In fondo Mandibules trova la sua perfetta metafora nel gesto d’intesa “toro!” dei suoi due protagonisti, residuo infantile di una stretta di mano e di una complicità che non hanno mai perso nonostante tutto. Non c’è un perché, è così e basta, e c’è bisogno di anche questo tipo di film qui, che ci ricordano di non prendere mai nulla troppo sul serio, nemmeno il cinema stesso.