Ad appena un anno da Agnus Dei, Anne Fontaine non perde tempo e presenta nella finora non scarna sezione Orizzonti della 74° Mostra del Cinema di Venezia un altro film: Marvin, a cavallo tra realtà e finzione teatrale.

Marvin Bijou è fuggito. È sfuggito all’intolleranza, al rifiuto e al bullismo che l’ha escluso e marchiato come diverso. Contro ogni previsione, trova degli alleati. Dapprima Madeleine Clément, la preside della scuola media che lo introduce al teatro. Successivamente Abel Pinto, suo mentore e modello di riferimento, lo incoraggerà a raccontare la sua storia sul palcoscenico. Infine, Isabelle Huppert (nella parte di se stessa) lo aiuterà a produrre e a mettere in scena il suo spettacolo.

Una sinossi relativamente più ampia e anticipatoria si rende necessaria a causa della complessità della narrazione, che vede il protagonista correre furiosamente da una scena all’altra prima in fuga, poi tra le braccia si Isabelle Huppert. A partire dal rapporto contrastato con il padre fino all’ostracismo sociale subito dal villaggio di campagna in cui viveva, fino alla finale espressione del vero sé con lo spettacolo teatrale, quella di Marvin è una profonda storia di redenzione, che lo vede più volte trasformarsi e altrettante guardarsi indietro guardando alle pelle appena cambiata con rimpianto. Il più grande dubbio del protagonista è quello di dimenticare chi è, di tradire se stesso pur di raggiungere lo scopo prefissatosi di liberazione. Marvin in sostanza non sa come far collimare i vecchi affetti con quanti li seguono, perché si escludono vicendevolmente.

Il film in sé è costruito bene, girato con calma e messo in scena con grazia, e la narrazione che si prefigge è violenta, estremamente fisica; tuttavia presenta tratti incongruenti nella scrittura, quasi da dubitare della convinzione della Fontaine nel portare a termine l’opera con autorialità radicale. La strada percorsa da Marvin è fatta di intrecci, di promiscuità e contaminazione mentre lo scopo ultimo del film e del suo finale appare piuttosto come una sterile ricerca di candore e purezza, il che è quantomeno destabilizzante visto che il punto sembrava essere la sottile linea di demarcazione tra l’equilibrio e il disastro.

Certo, c’è una grossa falla dal punta di vista costitutivo, ma Marvin comunque riesce a reggere lo stesso le due ore di durata, e non indifferente è l’apporto di Huppert nel gioco meta-cinematografico dello spettacolo, che dà i suoi frutti nella gestione dei tempi, permettendo all’opera di Fontaine di raggiungere una sua autonomia. In conclusione, Marvin è più in linea con Agnus Dei rispetto agli altri film della regista, evidenziando sì tecnica ed esperienza ma ancora molta indecisione dal punto di vista meramente artistico.